domenica 22 luglio 2012

State of the World 2012


Il consueto Rapporto annuale del Worldwatch Institute è stato dedicato quest’anno alle tematiche della green economy allo scopo di avviare un dibattito propedeutico al Summit di Rio de Janeiro, tenutosi lo scorso giugno, nello stesso luogo dove era stato realizzato esattamente 20 anni fa.
Ma se il Summit del 1992 resta tutt’oggi un momento storico per il mondo ambientalista per la portata delle decisioni varate allora, non altrettanto si può affermare per i risultati raggiunti dal meeting di quest’anno, di fatto bloccato da tutta una serie di veti incrociati tra le nazioni partecipanti.
Eppure l’edizione 2012 di State of the World a me è parsa tra le migliori degli ultimi anni per le tematiche affrontatevi e per la notevole serie di proposte ed esempi concreti in essa riportate dai vari esperti che hanno redatto le singole parti di questo corposo rapporto sullo stato del nostro pianeta.
Volendo utilizzare un termine per classificare il volume - edito come da molti anni per l’Italia dalle Edizioni Ambiente, (pp. 390, €. 24,00) – io lo definirei un testo all’insegna del “downshifting”.
Il quadro che ci viene mostrato dai redattori del Worldwatch Institute è in effetti quello di un pianeta, la Terra, ormai ridotta allo stremo proprio a causa delle scelte compiute dall’uomo. La grave crisi economica che stiamo attraversando potrebbe essere assunta ad emblema, metafora, naturale conseguenza di queste scelte. 
Gianfranco Bologna, nella sua consueta introduzione al rapporto, cita la copertina di The Economist che lo scorso maggio 2011 riportava il titolo: “Welcome to the Anthropocene. Geology’s new age”. Ormai l’idea di vivere in un mondo sempre più dominato dalla specie umana sta uscendo dallo stretto ambito della ricerca scientifica e permeando la nostra cultura diffusa.
Il libro è una vera miniera di dati emblematici in tal senso. Ne cito solo alcuni a titolo d’esempio:

  • -      la concentrazione di biossido di carbonio in atmosfera ha raggiunto nel febbraio 2012 il livello di 393,65 ppm. Nel 1959, primo anno in cui essa venne calcolata, essa era di 315,98 ppm.
  • -       il 31 ottobre 2011 la Terra ha raggiunto i 7 miliardi di abitanti; il primo miliardo era stato raggiunto solo ad inizio Ottocento, il secondo ad inizio Novecento, il terzo miliardo nel 1959, il quarto nel 1974 … l’ottavo miliardo dovrebbe essere raggiunto nel 2025.
  • -      dagli anni ’70 i livelli di motorizzazione hanno conosciuto un’incessante crescita globale; nel 1990 erano in circolazione sulla Terra 500 milioni di auto; oggi se contano circa 800 milioni e l’AIE (Agenzia Internazionale per l’Energia) prevede che per il 2050 saliranno a 2-3 miliardi.
Partendo da questi presupposti risulta evidente come la prospettiva di uno sviluppo sempre più ampio della cosiddetta green economy, intesa come un’economia che produca un miglioramento del benessere umano e dell’equità sociale, contestualmente ad una significativa riduzione dei rischi ambientali, ovvero di un’economia a bassa intensità di carbonio e sempre più efficiente nell’utilizzo delle risorse, rappresenta non solo una valida alternativa ma anche, ormai, una strada obbligata.

Uno dei motti che sintetizza molti degli interventi riportati in questo volume potrebbe essere quello del “fare di più con meno” caro ai cosiddetti filosofi della decrescita. Il tema è stato più volte trattato su questo blog ma per comodità cerco di riportarne qui una breve sintesi: con il termine decrescita s’intende un’inversione di tendenza volontaria delle economie che si allontanino dal perseguimento della crescita infinita per tornare ad essere in linea con i confini planetari, ad un sistema economico allo stato stazionario che sia in equilibrio con i limiti della Terra. Primo teorico di questa idea fu l’economista rumeno N. Georgescu-Roegen ma ormai sono molti i suoi sostenitori. Uno su tutti è SergeLatouche che da ormai diversi anni si sforza di spiegare come il concetto di decrescita non è sinonimo di decadenza o sofferenza, bensì paragonabile ad una dieta sana seguita volontariamente per migliorare il benessere di una persona. Molto interessante in proposito la sua ultima pubblicazione in Italia dal titolo “Per un’abbondanza frugale” (Ediz. Bollati Boringhieri, pp. 150, €. 15,00) in cui egli ribadisce ancora una volta i punti cardine del suo pensiero improntato ad una radicale critica del liberalismo, inteso come insieme di valori alla base della società dei consumi, ribadendo la sua proposta incentrata sulle cosiddette otto “R” (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare). Anche l’economista Tim Jackson si avvicina a questa teoria parlando, nel suo omonimo libro, di “Prosperità senza crescita” (Ediz. Ambiente 2011, pp. 300, €. 24,00) ovvero prospettando anch’egli un’idea di sviluppo economico non più improntata ad uno stile di vita consumistico, ma piuttosto alla prospettiva di una società florida in quanto luogo dove sia possibile vivere una vita migliore lavorando meno e consumando meno.Questo ultimo testo è già stato commentato su questo blog e puoi leggere la recensione cliccando sul titolo sopra riportato.

Sono molti i paradossi che possiamo individuare nella società dei consumi di oggi. Negli Stati Uniti, ad esempio, due adulti su tre risultano sovrappeso oppure obesi e questo riduce molto la qualità della loro esistenza e la loro aspettativa di vita. Inoltre questo costa al paese un extra di 270 milioni di dollari all’anno per spese mediche e perdita di produttività per morti premature ed invalidità. La sola industria alimentare negli Stati Uniti guadagna fino a 100 miliardi di dollari l’anno sull’obesità. Ma giustamente il Rapporto fa notare come l’obesità sia solo uno degli effetti collaterali al sovrasviluppo. Maggior indebitamento, orari di lavoro prolungati, dipendenza farmacologica, perdita di tempo nel traffico e addirittura più elevati livelli di isolamento sociale sono dovuti, almeno in parte, a stili di vita con alti livelli di consumo.
Citando un passo del testo, “puntare alla decrescita, oltre a ridurre gli effetti collaterali fisici e sociali della ossessiva aspirazione alla crescita, ridurrebbe l’impatto ambientale dell’economia umana poiché alcune popolazioni consumerebbero meno cibo, risorse ed energia”.


Il breve cartone animato, qui sotto visionabile e prodotto dalla The New Economics Foundation raffigura in maniera impeccabile l’assurdità della crescita infinita. Se un criceto non smettesse di crescere una volta raggiunta l’età adulta, arriverebbe a 9 milioni di tonnellate al suo primo anno di vita e in un solo giorno potrebbe mangiare il grano prodotto ogni anno in tutto il mondo. E avrebbe ancora fame. La voce narrante conclude: “C’è un motivo per cui in natura le cose crescono solo fino ad un certo punto, quindi perché gli economisti e i politici pensano che l’economia possa crescere all’infinito?”


Un capitolo di State of the World 2012 è dedicato alla pianificazione dello sviluppo urbano. Ormai la popolazione mondiale e la produzione economica si stanno spostando sempre più nelle aree urbane. Oltre il 70% degli abitanti del Nord America, America Latina ed Europa vivono già nelle grandi città. In quanto motori di crescita economica, le città stanno diventando sempre più importanti per la produzione economica e sul fronte occupazionale. Le Megalopoli – città con più di 10 milioni di abitanti – negli ultimi 20 anni sono più che raddoppiate ed oggi ospitano già il 7% della popolazione mondiale. In testa alla classifica delle città più abitate del pianeta troviamo Tokyo con i suoi 36,7 milioni di abitanti seguita da Delhi con 22,2 milioni (nel 1990 quest’ultima era ancora all’undicesimo posto). Secondo le previsioni entro il 2025 le megalopoli sul pianeta saranno già 27 (oggi sono 21). Eppure, se queste aree verranno pianificate in maniera strategica, esse potranno offrire importanti opportunità in termini di risparmio energetico, trasporti collettivi e produzione del cibo, facilmente immaginabili laddove si riscontra una notevole densità abitativa che, se sfruttata in modo intelligente, potrebbe portare ad un notevole abbassamento dei costi di gestione di questi insediamenti. Delhi - cita ancora State of the World a titolo di esempio - ha progettato un sistema per l’approvvigionamento idrico che raccoglie l’acqua piovana incrementando il livello delle falde; a Dhaka è stato costruito un impianto di compostaggio che può processare fino a 700 tonnellate di rifiuti organici al giorno.

Il problema dei trasporti è giudicato dal Worldwatch Institute come un altro settore strategico la cui pianificazione risulta fondamentale. Ad esempio, è statisticamente dimostrato come la costruzione di arterie ad alto scorrimento in città e la capacità dei parcheggi per le auto private non solo non decongestionano la rete dei trasporti ma inquinano anche l’aria urbana, accelerando il processo dei cambiamenti climatici e aumentano la dipendenza dalle importazioni di combustibile per quei paesi, come l’Italia che sono prive di materie prime. Inoltre contribuiscono all’aumento delle malattie respiratorie e delle morti per incidenti da traffico, oltre a causare spreco di tempo e denaro per gli spostamenti rallentati. Ma tutto questo si può evitare. Investimenti in sistemi di trasporto più sostenibili possono generare più posti di lavoro, tutelando allo stesso tempo l’ambiente. Un autobus con una capienza massima di 50-70 persone occupa approssimativamente lo stesso spazio di tre automobili che in media trasportano 6 passeggeri. (ndr: provate ad osservare i passeggeri a bordo delle auto che intasano un viale in una normale giornata lavorativa: scoprirete che la maggioranza è composta da una sola persona … !) Eppure le soluzioni ci sarebbero già: dal bike-sharing (Parigi, Shanghai, Barcellona, ma anche ormai molte città italiane) al car-sharing, agli autobus a trasporto rapido (Bogotà, Guangzhou), dalle normative che disincentivano l’uso dei veicoli privati a motore (Singapore, Londra, Stoccolma, Milano) al miglioramento dell’efficienza dei veicoli (Giappone, California, Unione europea).

Un altro tema particolarmente approfondito da questa edizione del Rapporto sullo stato del pianeta è quello della sovrappopolazione. L’umanità potrebbe passare realmente dagli attuali 7 miliardi ai 9 miliardi previsti entro la metà del secolo, per poi assestarsi attorno ai 10 miliardi nel corso del 22° secolo. Robert Engelman, Presidente del Worldwatch Institute, sostiene che questo deve essere impedito e che le possibilità per farlo già oggi ci sono, soprattutto intervenendo nel campo della contraccezione ed in quello dell’istruzione; le statistiche a riguardo sembrerebbero infatti dimostrare che più s’innalza il livello di istruzione di una popolazione (in particolare quello femminile) e più si abbassa il numero medio di figli per famiglia. In proposito però sono io a nutrire qualche scetticismo. Risulta evidente infatti che, similmente a quanto già oggi sta avvenendo nel nostro paese, seguendo questa strategia una sempre minore percentuale di popolazione lavorerebbe e verserebbe  i contributi per la pensione e l’assistenza sanitaria di un numero invece sempre crescente di persone anziane che non lavorano più. Siamo proprio sicuri che questo compromesso sia accettabile in cambio di una vita più lunga ed in un mondo meno popoloso anche se meno inquinato?

Un tema sul quale invece torno in sintonia con gli autori del Rapporto è quello dedicato all’impatto ambientale causato dagli animali domestici. Oltre alla popolazione umana, c’è un’altra popolazione che cresce rapidamente nel mondo: quella dei cani e dei gatti domestici. Negli Stati Uniti – riporta sempre l’annuario - ci sono 61 milioni di cani e 76,5 milioni di gatti. In termini di alimentazione – citando State of the World – “un cane di taglia grande utilizza 0,36 ettari di risorse l’anno, un cane di taglia piccola 0,18 e un gatto 0,13 ettari. In confronto un’abitante del Bangladesh usa in media 0,6 ettari di risorse l’anno in totale, meno di due pastori tedeschi in un anno. (…) Dar da mangiare agli animali domestici americani ha un impatto ambientale pari alle popolazioni di Cuba e Haiti messe assieme.” Non parliamo poi di tutto il merchandising legato al mondo degli animali d’affezione: abbigliamento su misura, giocattoli, sofisticate cure veterinarie, servizi di dog-sitter, saloni di bellezza, e altro ancora. Ogni anno si spendono per il solo cibo per gli animali domestici qualcosa come 42 miliardi di dollari a livello globale. Se dobbiamo ridurre la popolazione umana credo sia altrettanto giusto ridurre anche quella degli animali domestici. E, se proprio vogliamo avere un animale in casa, adottiamo uno dei tanti che purtroppo vengono abbandonati e sono costretti a vivere in strutture di ricovero che oltretutto rappresentano un costo per le nostre comunità. Possedere un animale domestico oggi è un lusso che comporta un notevole costo anche in termini ecologici anche se, facendo tale affermazione, so già di attirarmi le ire di molti animalisti che la pensano in maniera totalmente diversa.

La critica più accanita State of the World 2012 la riserva alla filosofia consumistica ancora imperante nel mondo odierno. Citando proprio uno studio dei Friendsof the Earth Europe, si ricorda come oggi vengano prelevate in generale 60 miliardi di tonnellate di risorse naturali ogni anno: circa il 30% in più rispetto ad appena 30 anni fa. Nel 2000 ogni americano ha consumato 88 chili di risorse al giorno; ogni europeo 43; ogni abitante dell’America Latina 34. Il fatto più rilevante è che tali risorse non sono impiegate solo per soddisfare necessità primarie come cibo, protezione, vestiti e trasporti, ma anche per “collezionare” quei prodotti di consumo in gran parte superflui e comunque non indispensabili. Nel solo 2008 sono stati globalmente acquistati 68 milioni di veicoli, 85 milioni di frigoriferi, 297 milioni di computer, 1,2 miliardi di telefoni cellulari. Tutti questi numeri sono destinati inevitabilmente a crescere man mano che nuovi individui entreranno a far parte della classe dei consumatori.
Eppure, secondo un numero sempre maggiore di studi, il benessere raramente è connesso alla crescita dei consumi.
Raggiungere la sostenibilità e consumi sostenibili richiederà uno sforzo concertato da parte di tutti, dai governi ai singoli produttori, dalla società civile ai singoli consumatori. Cambiare le abitudini di consumo significa cambiare un aspetto molto importante nella cultura di qualunque società.

Sostiene Michael Renner, condirettore di State of the World 2012, “l’umanità si comporta come se le risorse fossero infinite, come se gli ecosistemi fossero irrilevanti per l’esistenza umana, come se ci fosse una Terra 2.0 di riserva nel caso in cui dovessimo riuscire a devastare questa.” Sappiamo bene che non è così.
La strada per imparare a vivere nei limiti di un solo pianeta  è certamente difficile, eppure anche affascinante e stimolante. Troveremo la forza di portarla avanti?

Michele Salvadori

8 commenti:

Anonimo ha detto...

Complimenti, un resoconto molto, molto interessante.

Riguardo al tuo dubbio sulla regolamentazione delle nascite: prima di tutto, il discorso va affrontato zona per zona. L'Europa, per esempio, è il continente con meno nascite, tanto che deve contare sull'immigrazione per non invecchiare; Africa e Asia invece producono perlopiù cittadini poveri, denutriti e privi dei diritti essenziali; lì si che vanno fatte campagne istruttive-informative, già in corso tra l'altro -sia pur limitatamente- grazie all'opera di famose organizzazioni. Inoltre: meno cittadini = meno tasse sì, ma anche minore domanda di servizi e risorse loro necessarie; = meno anziani in futuro; = più lavoro per ciascuno. Secondo uno studio (da prendere con le dovute riserve), non è casuale che la popolazione omosessuale e sterile sia in aumento.

Come animalista convinta, sostengo invece la tua posizione sugli animali domestici, aggiungendo che il problema si può risolvere sterilizzando cani e gatti e riducendo così il numero di randagi e, complessivamente, di animali: è quello che cercano di fare in Romania e nel sud Italia ad esempio, dove il randagismo è forte. I negozi di animali andrebbero aboliti e le aziende che producono cibo in scatola e gadget andrebbero ridotte e, soprattutto, sottoposte ad un rigido controllo di qualità.

Anonimo ha detto...

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