sabato 2 gennaio 2021

"La sfida di Gaia" di Bruno Latour


Ormai da oltre una decina di anni mi muovo in lungo e in largo per l’Italia. Causa il tipo di lavoro che svolgo sono costretto ad utilizzare come mezzo di trasporto un’auto con la quale compio migliaia di chilometri viaggiando in ogni stagione ed in ogni condizione meteo. Ho potuto sperimentare di persona e più volte cosa significa il cambiamento climatico e come negli ultimi anni si sia verificata una accelerazione verso un’instabilità metereologica sempre più contraddistinta da fenomeni di estrema violenza. Mai come negli ultimi anni e con frequenza purtroppo sempre crescente, ho dovuto affrontare in auto piogge torrenziali quanto improvvise, bombe d’acqua, trombe d’aria e via dicendo, in ogni stagione ed in ogni zona d’Italia.

Ormai partire da casa per un viaggio di lavoro contempla inevitabilmente prendere in seria considerazione le previsioni metereologiche prima di ogni altra cosa ed agire di conseguenza. Se un tempo prima della partenza mi sentivo dire da mia moglie la consueta frase: “Mi raccomando, vai piano, sii prudente”. Ora la prima questione è diventata: “Che tempo farà nei prossimi giorni in Liguria? In Veneto? E in Campania?”.

Il cambiamento climatico in atto ai mei occhi è talmente evidente e mi procura così tanta ansia alla vigilia di ogni mia trasferta che sinceramente fatico a comprendere come ci siano ancora molti che ne sostengono l’inesistenza e, di conseguenza, non sembrano preoccuparsi di quanto stia avvenendo.

Per questo ho letto con grande interesse “La sfida di Gaia”, titolo del saggio edito da Meltemi che raccoglie otto conferenze del filosofo e antropologo francese, Bruno Latour attraverso le quali egli tenta di abbattere i muri che ancora separano i saperi scientifico e umanistico provando a dare un contributo anche da parte del mondo della filosofia alla causa della sostenibilità ambientale.

Premetto che a differenza della gran parte delle altre opere che ho commentato su questo blog - tutte più o meno accomunate da intenti divulgativi e di più semplice presa - stavolta il contenuto di questo saggio è di complessità superiore e probabilmente di non facile comprensione per chiunque. Io almeno ho faticato non poco nell’affrontare alcuni passaggi di questo libro sui quali mi sono dovuto soffermare più a lungo del solito per comprenderne il significato. Ciononostante credo che ogni tanto ci si debba cimentare anche con testi superiori alle nostre capacità per compiere dei passi in avanti.

Bruno Latour parte proprio dalla domanda che in tanti ci poniamo quotidianamente. Fenomeni quali innalzamento del livello dei mari, scomparsa dei ghiacciai, innalzamento dei livelli di CO2, aumento delle temperature (sembra che il 2020 sia stato l’anno più caldo di sempre), acidificazione degli oceani, scomparsa delle specie animali, tutto conferma che stiamo vivendo una profonda crisi ecologica. Eppure, una consistente fetta della società continua a non dare segni di preoccuparsi di certi fenomeni quasi che questi fossero eventi che non la riguardano. Com’è possibile?

L’analisi di Bruno Latour è incentrata innanzitutto a trovare le cause principali a questa sorta d’indifferenza semi collettiva che contraddistingue una parte della nostra società.

A parere di Latour la refrattarietà da parte di parte dell’umanità a reagire alle conseguenze della crisi climatica è frutto di una realtà ormai estremamente complessa nella quale viviamo. Ma per il filosofo francese siamo giunti a questa situazione anche a causa di un mancato dialogo tra i vari saperi. Nell’ultimo mezzo secolo, le voci inascoltate degli scienziati avrebbero avuto probabilmente maggiore eco se a recepirle non ci fossero stati solamente i loro colleghi di altre discipline tecnico-scientifiche, ma gli umanisti, quei filosofi, sociologi e antropologi in grado di valutare gli impatti della crisi ecologica sugli esseri umani.

Latour parte dall’analisi di una delle teorie cardine della scienza ambientale ovvero dall’ Ipotesi Gaia” di James Lovelock, già commentata anche dal sottoscritto su questo blog. Alla fine degli anni Settanta, Lovelock ipotizza l’idea che gli oceani, i mari, l'atmosfera, la crosta terrestre e tutte le altre componenti geofisiche del pianeta Terra si mantengano in condizioni idonee alla presenza della vita proprio grazie al comportamento e all'azione di tutti quegli organismi che concorrono a formarla; la Terra (Gaia, appunto) è, secondo lo scienziato inglese, un unico organismo vivente capace di autoregolarsi e di rispondere a tutti quei fattori nuovi e avversi che ne turbano gli equilibri naturali. La materia vivente non rimane passiva di fronte a ciò che minaccia la sua esistenza.

Latour inizia con una provocazione: la rivoluzione auspicata dalle menti progressiste si è già realizzata, non per l’auspicato cambiamento nella proprietà dei mezzi di produzione, ma per un’accelerazione nel movimento del ciclo del carbonio. I mari si riscaldano, l’acidità degli oceani è in costante crescita, quali che siano le strategie di resilienza nell’immediato futuro faremo i conti con tutti i tipping points che sono stati superati da tempo. Siamo nell’età delle conseguenze. Per chi non lo avesse ben chiaro: nell’età delle conseguenze dell’attività umana.

Secondo Latour parte della società resta insensibile alle questioni ecologiche, appare indifferente quasi che quest’ultime non la coinvolgessero direttamente proprio perché contrariamente a quanto teorizzato da Lovelock, questa parte di società sente, erroneamente, di non appartenere più a Gaia, di non fare più parte dello stesso “mondo” fisico.

Andare a dire agli occidentali che il tempo è finito, che il loro mondo è giunto al termine, che è necessario un cambiamento del loro stile di vita, non può che suscitare un sentimento di totale incomprensione poiché, per loro, l’apocalisse è già avvenuta.” A parere di Latour i cosiddetti scettici del clima reputano degli svitati, delle moderne “Cassandre” i profeti di sventura del cambiamento climatico.

Ciò avviene, secondo Latour, “in un momento in cui la figura dell’umano non è mai apparsa così inadatta a tenerne conto”, un contesto storico in cui “siamo alfine riusciti a universalizzare su tutta la superficie della Terra lo stesso umanoide economizzatore e calcolatore”.  Da una parte c’è l’homo oeconomicus, dedito solo alla cura dei propri interessi individuali ed incarnazione del capitale, dall’altra Gaia.

In un Pianeta egemonizzato e omogeneizzato dall’economia, la presenza dell’umano è ovunque, così come la sua relazione con ciò che una volta era considerato naturale, eppure la centralità assunta da Gaia continua a essere percepita da una parte minoritaria di coloro che hanno accesso alla conoscenza:

Avete sicuramente notato che gli individui che rimangono insensibili alle crisi ecologiche sono molto suscettibili su tutte le questioni di morale come di identità e pronti a scendere in piazza quando i loro interessi sono minacciati. Se hanno scelto di essere negligenti è solo nei confronti di esseri che appartengono al regno della ‘natura’”.

Ma, al contrario, a parere di Latour l’unica possibilità che abbiamo per allontanarci dall’Apocalisse che altrimenti ci attende sarà proprio tornare a percorrere la strada del linguaggio apocalittico, convincere questi “scettici” dell’immutato radicamento dell’essere umano alla Terra.

Gaia è un’ingiunzione a rimaterializzare l’appartenenza al mondo”.

Nella parte finale del saggio Latour afferma con forza l’anacronismo di istanze sostenute dagli Stati-nazione e la necessità di dar voce a Gaia: “La finzione non risiede nel dare voce all’acqua, ma nel credere che si possa fare a meno di rappresentarla con una voce umana, capace di farsi comprendere da altri umani”.

La scienza dell’Economia ha depotenziato gli Stati, li ha privati della capacità di garantire la difesa ai propri soggetti:

Il fallimento della lotta dello Stato contro le mondializzazioni successive non l’ha preparato affatto a tenere conto di questa nuova forma di mondializzazione da parte della Terra stessa. Nell’epoca dell’Antropocene lo Stato sovrano si ritrova quindi affetto da obsolescenza, proprio nel momento in cui la mondializzazione planetaria diviene letteralmente, e non più figurativamente, il pianeta”.

Michele Salvadori