lunedì 7 aprile 2014

"Nuove energie" di Giuseppe Recchi

Il mondo ambientalista e quello dei produttori delle cosiddette “energie sporche” rappresentano realmente due mondi contrapposti, le cui idee e prospettive sono e resteranno per sempre inconciliabili? Ho voluto, questa volta, cercare di capire il punto di vista di qualcuno che certo non appartiene alla corrente ambientalista.

Giuseppe Recchi, presidente ENI, sesto gruppo petrolifero mondiale, è l’autore di questo breve testo, dal titolo “Nuove Energie- le sfide per lo sviluppo dell’Occidente” (Marsilio Editore, €. 13,00).
Ho innanzitutto apprezzato il tono divulgativo con cui è scritto il testo che consente di avvicinarsi a tematiche complesse come quella dell’utilizzo dell’energia anche a chi, come il sottoscritto, non ne è un esperto, ed anche la sua concisione, (appena 160 pagine), che non spaventa un lettore medio che spesso, di fronte a volumi della consistenza volumetrica e del peso dei mattoni, giustamente viene scoraggiato in partenza.

“La storia dell’energia è la storia del mondo”, recita l’incipit dei questo libro. Come non dargli ragione.
Il presidente dell’ENI ripercorre innanzitutto la storia dello sfruttamento delle fonti energetiche da parte dell’uomo a cominciare dall’utilizzo dell’olio di balena come principale fonte utilizzata per l’illuminazione e giunge poi a narrare la storia della perforazione dei primi pozzi petroliferi a metà dell’Ottocento, proprio alla ricerca di una fonte alternativa a quella fornita da balene e Capodogli, il cui numero stava repentinamente diminuendo a causa dell’intensificazione della caccia da parte dell’uomo.

Uno dei primi obiettivi di Recchi sembra essere quello di distruggere la teoria del picco di Hubbert, dal nome del geofisico americano M.K.Hubbert che ipotizzava che la produzione mondiale di petrolio si sarebbe progressivamente esaurita. Per anni, ci spiega Recchi, siamo stati convinti di essere vicinissimi al picco del petrolio ed in parte le previsioni si avverarono, se è vero che tra il 1970 e il 1971 negli USA il picco fu raggiunto sul serio. Secondo la quasi totalità degli esperti avremmo poi dovuto raggiungere il picco del petrolio a livello globale attorno alla metà degli anni ottanta. Addirittura il “Club di Roma” aveva previsto che attorno al 2000 la produzione del petrolio si sarebbe dimezzata. Per la cronaca, la produzione di greggio nel 2000 è risultata essere superiore del 25% rispetto a quella degli anni ottanta.
Questo grossolano errore di previsione secondo l’autore si è verificato per gli scarsi dati informativi a disposizione degli scienziati al momento di formulare le loro teorie e per non aver considerato che i progressi della scienza e della tecnologia avrebbero, come di fatto si è poi verificato, consentito nuove metodologie estrattive più efficaci ed efficienti e l’individuazione di riserve di idrocarburi in aree ancora non esplorate. In ultima analisi, l’unica risorsa davvero inesauribile - questa la tesi di Recchi - è la creatività dell’uomo che nei momenti di difficoltà spesso riesce a trovare strade alternative all’inizio impensabili.
La teoria del “peak oil” è dunque ormai screditata. Recchi afferma che le attuali stime parlano di disponibilità di petrolio e suoi derivati per almeno altri 180 anni. Tuttavia lo stesso Recchi ammette pure che non è affatto detto che sarà ancora il petrolio, nei prossimi cento e passa anni, ad avere un ruolo cruciale in campo energetico. Le stime dell’International Energy Outlook 2013 parlano, tra l’altro, di un incremento del consumo di energia nei prossimi trent’anni di circa il 56%.

Come affrontare il problema, allora?

Anche per Recchi, come per molti addetti ai lavori, la prima soluzione è l’enorme potenziale rappresentato dalla cosiddetta “rivoluzione non convenzionale” dello Shale Gas. Com’è noto, quando parliamo di shale gas ci riferiamo all’estrazione di gas naturale o di petrolio da rocce particolari: gli scisti argillosi, ricchi, in particolare, di gas metano. Il fenomeno era noto da tempo; quello che non avevamo era la tecnologia adatta all’estrazione. Dieci anni fa, George P. Mitchell ha rivoluzionato le tecniche di estrazione del gas con il sistema di fratturazione, detto fracking, che sfrutta la pressione di un fluido – in genere acqua – per creare e poi propagare una frattura in uno strato roccioso.
La portata di questo sistema estrattivo è enorme. Ancora nel 2000 negli USA lo shale gas rappresentava appena l’1% del gas naturale consumato. Al 2012 era già al 25% e si stima che nel 2030 la quota avrà superato il 50%. Nel giro di pochi anni gli USA non solo raggiungeranno l’autosufficienza ma addirittura diverranno esportatori di LNG (gas naturale liquefatto).

Aree del pianeta con maggiore presenza di Gas di argille
Per il momento, la rivoluzione dello shale gas noi europei la osserviamo da lontano. Secondo alcune stime, in Europa ci sono giacimenti di shale gas per 13 mila miliardi di metri cubi. Tuttavia Recchi non è ottimista sulla possibilità che anche nel nostro continente si verifichi un’equivalente rivoluzione energetica analoga a quella che sta avvenendo negli USA, non tanto per ragioni geologiche quanto per ragioni politiche e soprattutto perché la politica energetica in Europa non è univoca ma è appannaggio dei singoli stati.

Secondo Recchi, (ndr: e come potrebbe essere altrimenti?), le preoccupazioni degli ambientalisti sono immotivate. Ma proprio le pressioni ambientaliste, unite a quelle delle grandi lobby degli agricoltori, finiranno per pesare più dell’obiettivo dell’autosufficienza energetica, impedendo di fatto lo sviluppo di questa tecnologia anche sul vecchio continente.
Di fatto, la Francia, che avrebbe ingenti risorse di shale gas, ne ha proibito lo sfruttamento. In Germania e Olanda le pressioni contrarie dell’opinione pubblica ne stanno contrastando lo sviluppo e una situazione non dissimile si sta verificando anche in Spagna e Bulgaria.
La Polonia, unico paese dove per il momento questo tipo di problemi non ci sarebbe, ne ha invece un altro: la mancanza di un’adeguata rete di distribuzione del gas unita all’incertezza sulla qualità geologica dei suoi giacimenti.
L’unico paese in Europa che oggi si sta realmente attrezzando allo shale gas sembra essere il Regno Unito.

Ma le incertezze restano anche sul piano della fattibilità commerciale dell’estrazione in territorio europeo. Tuttavia, continua Recchi, anche se lo sviluppo di questa tecnologia in Europa dovesse valere una frazione di quella americana, nondimeno rappresenterebbe un contributo prezioso alla nostra economia. In realtà, gli ostacoli, per stessa ammissione dell’autore, sono vari. In Europa ad oggi non ci sono paesi in possesso contemporaneamente di tutti i requisiti che hanno consentito lo sviluppo dello shale gas come in USA. In nessun paese europeo infatti sussistono contemporanee condizioni di abbondanza di acqua, di esperienza diffusa nel campo estrattivo petrolifero, e facilità di accesso ai terreni (il diritto di proprietà del sottosuolo da noi appartiene allo Stato e non al singolo proprietario dei terreni come appunto in USA) e soprattutto è carente un forte impegno politico su questi obiettivi.

Per Recchi un grosso peso sta avendo anche la disinformazione promossa dai gruppi ambientalisti a livello europeo. A suo dire, l’allarme ambientale sollevato non ha ragion d’essere, visto lo stadio avanzato raggiunto negli Stati Uniti da questa tecnologia. Ciò che Recchi riconosce come limite principale della tecnica del fracking è la necessità di utilizzo di grandi quantità di acqua. Oggi, in media, occorrono circa 4 litri di acqua per produrre circa 15 metri cubi di gas. A quest’acqua poi vanno aggiunti addittivi chimici con evidenti rischi d’inquinamento che però sarebbero arginati dal fatto che l’acqua utilizzata per il processo non viene dispersa, ma recuperata per poi essere filtrata e riconvertita al suo stato originale.
Resta il fatto che la rivoluzione dello shale gas in USA ha funzionato perché si è rivelata un gioco win-win: ne guadagnano l’impresa petrolifera, il proprietario del terreno ed anche lo Stato attraverso le entrate fiscali e l’effetto dei prezzi più bassi dell’energia. Per non parlare dell’effetto sull’occupazione, che cresce.
E l’Europa, secondo Recchi, ha un altro problema: quello rappresentato dai sussidi alle energie rinnovabili che, paradossalmente, oggi ne mettono in crisi il mercato economico.

Gli Europei pagano il prezzo più alto al mondo per l’elettricità, in parte anche a causa di costosissimi sussidi alle energie rinnovabili corrisposti attraverso supplementi sulla bolletta elettrica. E tuttavia le emissioni da energia elettrica non diminuiscono più. Com’è possibile? Si tratta della risultante di più fattori: la marcia forzata verso le rinnovabili, la recessione economica e il crescente ricorso al carbone. Oggi infatti le aziende europee stanno importando grandi quantità di carbone a prezzi bassissimi, malgrado sia la fonte più sporca, proprio perché resta la più economicamente conveniente.
Il consumo di elettricità prodotta da gas nel 2013 in Europa è sceso del 30% rispetto al 2008, con punte che in Italia hanno toccato il 37%. Mentre le centrali elettriche a carbone marciano a pieno regime. In Germania, a causa dell’incremento nell’uso del carbone, le emissioni di gas serra sono aumentate nel 2011-2012, anziché diminuire. In Italia, invece, abbiamo un altro problema: solo nel 2012 abbiamo speso oltre 10 miliardi di euro in incentivi alle fonti rinnovabili che sono andati a costituire il 18% in media delle bollette elettriche di ciascuna famiglia.

Mentre dunque gli Stati Uniti marciano verso prezzi energetici più bassi, grazie alla scoperta dello shale gas, l’Europa sta andando esattamente nella direzione opposta. Di conseguenza la competitività industriale europea rispetto a quella americana sta subendo un netto deterioramento.

Come procedere, allora?

Secondo Recchi è indispensabile attuare una solida strategia energetica partendo dalla correzione delle misure rivelatesi distorsive a favore delle rinnovabili. Egli, sia pur molto sinteticamente, accenna all’importanza di dirottare quote maggiori d’incentivi verso le rinnovabili termiche (caldaie a biomassa, pompe di calore, ecc.) In secondo luogo si dovrebbe incoraggiare lo sfruttamento dello shale gas anche sul territorio europeo adottando una revisione delle norme che lo agevoli. In Italia, ad esempio, la cosiddetta Sindrome di Nimby (Not in my backyard, non nel mio giardino) ha bloccato molti progetti di sfruttamento di gas e petrolio. Sempre secondo Recchi, se anche noi italiani adottassimo a riguardo un approccio simile a quello dell’Inghilterra o della Norvegia, potremmo raddoppiare la produzione e soddisfare circa il 20% del consumo nazionale. Dobbiamo poi sicuramente procedere a sforzi importanti verso una maggiore efficienza energetica.

Vi è, per fortuna, nel testo una chiara ammissione del problema principale: le fonti fossili, che oggi continuano a rappresentare la principale risorsa energetica, sono anche la più inquinante. E per Recchi non esistono soluzioni applicabili nell’immediato che possano risolvere la questione rapidamente. “Anche chi utilizza un veicolo elettrico, ad esempio, non può non considerare il fatto che oggi l’elettricità prodotta in Italia è generata per il 70% da centrali alimentate con idrocarburi e solo per il 10% da pannelli solari e pale eoliche. I derivati del petrolio sono ovunque: pensiamo, ad esempio, alla bottiglietta del nostro shampoo, fatta in plastica (derivato del petrolio), lo stesso nostro shampoo è fatto in larga misura da composti petrolchimici. Se facessimo la somma di tutti i derivati del greggio che utilizziamo, consapevolmente o meno, e che servono a tenere “accesa” la nostra società civile, ne deriverebbe che, solo in Italia, consumiamo mediamente 21 barili al giorno ogni 1.000 abitanti: poco più di 3 litri di petrolio al giorno per persona. A livello globale tutte le fonti alternative agli idrocarburi messe insieme – eolico, solare, nucleare, ecc. – contano secondo l’Agenzia internazionale per l’Energia dell’Ocse, per meno di un terzo dell’elettricità generata nel mondo”.

Gli idrocarburi restano dunque al momento un ingrediente base della nostra civiltà, anche se sono un ingrediente molto contestato. Recchi riconosce ad una parte del mondo ambientalista la genuina preoccupazione per la sopravvivenza del nostro ecosistema giungendo ad analizzare il problema del rischio di modifica delle condizioni climatiche del pianeta a causa dell’attività dell’uomo. Sono ormai in molti, egli sostiene, a ritenere indispensabile un cambiamento del nostro stile di vita, del nostro modello di consumo a favore di scelte più ecocompatibili.

Purtroppo però il problema, secondo Recchi, non è più se possiamo o no fare a meno del petrolio e degli idrocarburi. E’ grazie a loro se oggi per sette miliardi di persone su questo pianeta è possibile alimentarsi, vestirsi, curarsi e spostarsi. Se decidessimo di farne a meno dovremmo dire addio all’industria e al commercio e quindi, tutta o quasi la produzione di beni e servizi dovrebbe svolgersi nelle vicinanze di casa. La strategia più pratica, oggi, per proteggere il pianeta resta quella di concentrarsi sulla riduzione degli sprechi e sull’aumento dell’efficienza.

Recchi infine evidenzia anche un'altra questione, allorchè afferma che il problema del riscaldamento dell’atmosfera della Terra è un problema globale e che gli sforzi dell’Europa possono servire relativamente a poco per risolverlo se resteranno isolati. Anche se in Europa riuscissimo a diminuire le nostre emissioni del 20% entro il 2020, questo servirebbe a poco se in India e in Cina le emissioni continuassero a crescere in maniera esponenziale.
Resta invece la ferma convinzione del Presidente ENI che l’obiettivo dell’efficienza energetica possa essere un fattore trainante anche per l’economia oltre che per l’ambiente. L’efficienza risulta positiva in tutti i sensi, egli conclude: ” essa può diminuire i danni all’atmosfera ma anche far risparmiare denaro che potrebbe essere speso per migliorare le condizioni di vita della popolazione accrescendo al contempo la sicurezza energetica e diminuendo le importazioni di energia”.

Naturalmente non tutto quanto sostiene Recchi è da me personalmente condiviso. Resta difficile considerare del tutto disinteressate certe affermazioni da parte del presidente di uno dei principali colossi energetici mondiali. Considero un po’ demagogico parlare di 7 miliardi di abitanti del pianeta che hanno raggiunto un buon tenore di vita grazie all’uso degli idrocarburi. Almeno un miliardo di persone continua a morire di fame, e vive in assenza di luce e acqua nelle proprie abitazioni, o no? Ritengo però che il tema dello shale gas in Europa dovrebbe comunque essere affrontato senza preconcetti anche perché, pur trattandosi sempre di un combustibile fossile, esso è sicuramente meno impattante specie se paragonato al carbone, in termini di emissioni prodotte; condivido anche il pensiero di Recchi in merito alle scelte politiche europee in tema di energia e soprattutto la sua considerazione che a ben poco serviranno le scelte di abbattere le emissioni sul territorio europeo se poi nel resto del mondo tali vincoli non saranno altrettanto condivisi e rispettati.

Questi ultimi punti sono anche gli argomenti più comunemente utilizzati da larga parte del mondo ambientalista per attaccare il mondo dei produttori della cosidetta “energia sporca”. Ritengo di conoscere abbastanza bene una parte di quel mondo ambientalista che agisce talvolta condizionato più dall’ideologia che da convinzioni supportate scientificamente. Quel mondo ambientalista che ad esempio si oppone ai termovalorizzatori, che si ostina a dire di no a tutto e dunque no, a prescindere, anche allo shale gas, senza probabilmente mai aver cercato di approfondire il tema, che ha la presunzione di essere l’unico depositario del sapere e della verità e che considera ancora il mondo diviso tra buoni e cattivi, come nei vecchi film western.

Viviamo una realtà estremamente complessa e destinata a complicarsi probabilmente sempre più; questa è una ragione, più che sufficiente, perché si debba avere il coraggio di confrontarci con tutti anche e soprattutto con chi, ufficialmente, si colloca dall’altra parte della barricata.


Michele Salvadori

martedì 27 agosto 2013

“2052 – Rapporto al Club di Roma”

Nel 1972, come è noto, su incarico del Club di Roma, un gruppo di studiosi del MIT pubblica " I Limiti dello sviluppo". Il libro, basato su simulazioni effettuate con i primi elaboratori elettronici, prefigura gli effetti della crescita della popolazione, dei consumi e dell’inquinamento sul nostro pianeta, fisicamente limitato. Ormai a distanza di tanti anni si riconosce che le conclusioni di quello studio erano sostanzialmente corrette.

Nel 2012, Jorgen Randers, uno dei coautori de “I Limiti dello Sviluppo”, ha deciso di avvalersi dei contributi di una quarantina di esperti e dei calcoli elaborati da supercomputer per provare ad immaginare come potrà essere il nostro futuro sulla Terra tra altri quaranta anni, nel 2052.
Il risultato di questo complesso lavoro è decisamente affascinante, in particolare per gli obiettivi prefissati da un blog come “Che Pianeta faremo”, ma credo anche utile a tutti coloro i quali, nei prossimi anni, debbano rivestire ruoli di responsabilità (politica e non) e di gestione di risorse.
Diciamo subito che le conclusioni a cui Randers arriva in “2052 – Rapporto al Club di Roma” – (Ediz. Ambiente – 2013), portano ad immaginare un pianeta, il nostro, che tra quarant'anni verserà in condizioni decisamente peggiori delle attuali e pur tuttavia non disastrose come qualcuno potrebbe credere.
Inevitabilmente sono costretto a sintetizzare un testo che meriterebbe ampiamente di essere letto integralmente con attenzione ed al quale rimando. Anzi, invito calorosamente a dedicarvisi, non sarà tempo perso, fidatevi.
Proverò comunque a mettere insieme i punti che giudico più importanti.

Randers parte dall'analisi storica dello sviluppo globale sulla Terra negli ultimi trecento anni. Prima del ‘700 il mondo era scarsamente popolato, per lo più a sviluppo agricolo e consumava pochissima energia (si andava avanti con gli schiavi, i cavalli, il bestiame e un po’ di legna da ardere). L’avvento delle macchine a vapore alimentate dal carbone diede inizio alla rivoluzione industriale caratterizzata da un progressivo ma anche esorbitante aumento dei consumi energetici. Negli ultimi 250 anni l’uso dell’energia ha reso i paesi industrializzati ricchi di beni materiali ed assicurato alle loro popolazioni una vita decisamente meno faticosa. Anche molti paesi un tempo meno industrializzati stanno oggi ripercorrendo quella stessa strada. La Cina ne è l’esempio più lampante ma certo non il solo. Già oggi possiamo annoverarvi nazioni come l’India, il Brasile e altre ancora caratterizzate oltretutto da un elevatissimo numero di abitanti.
La questione è che l’aumento senza limiti del consumo di materiali ed energia oltre a non essere praticabile vivendo su un pianeta limitato, risulta anche assai dannoso in termini di impatto sull'ambiente.

Secondo Randers, dunque, l’era della rivoluzione industriale è destinata prima o poi a tramontare per lasciare spazio all'era della sostenibilità caratterizzata da un mondo nel quale la popolazione non sarà più in aumento, dove l’energia sarà ancora molto utilizzata, anche se in maniera più saggia, e proverrà da fonti rinnovabili; avremo un mondo nel quale, finalmente, l’obiettivo primario sarà il benessere del genere umano e non più il possesso materiale. Il paradigma dominante dovrà spostarsi da quello di una crescita fisica infinita a una forma di stabilità che si adatti alla capacità di carico del pianeta.

Il punto cruciale è la velocità con cui si realizzerà tale transizione: saremo, cioè, capaci di realizzarla in tempo da evitare gravi danni allo stato di salute attuale del pianeta?
Secondo l’autore la risposta purtroppo è NO. Entro il 2100 probabilmente avremo raggiunto l’obiettivo di un mondo molto più sostenibile di quello attuale ma non senza gravi perdite in termini di biodiversità e grosse modifiche alle condizioni climatiche della Terra. E soprattutto i prossimi quarant'anni saranno fortemente influenzati dal modo in cui affronteremo cinque problemi d’importanza basilare: il capitalismo, la crescita economica, la democrazia, l’equità intergenerazionale ed il nostro impatto sul clima globale.
Provo di seguito a sintetizzare le principali previsioni avanzate dal testo sui principali temi:  

Popolazione nel 2052
Ci è voluta tutta la storia dell’umanità per arrivare a circa tre miliardi di persone nel 1960, altri quarant'anni per raddoppiare quel numero toccando i sei miliardi e altri dieci per raggiungere i sette miliardi di abitanti odierni sulla Terra. La previsione di Randers è per certi versi perfino ottimistica; egli infatti sostiene che il picco di popolazione globale sarà raggiunto attorno al 2040 e si aggirerà attorno agli 8,1 miliardi di abitanti. Da quel momento in poi la popolazione inizierà a diminuire. Ciò avverrà non a causa di malnutrizione, inquinamento o epidemie ma piuttosto dalla scelta volontaria di miliardi di famiglie - la cui stragrande maggioranza nel frattempo si sarà trasferita a vivere in grandi metropoli da milioni di abitanti - di procreare di meno. Quando infatti la maggioranza delle persone sarà urbanizzata, avere molti figli non rappresenterà più un vantaggio: ogni figlio in più in una metropoli è una bocca in più da sfamare, una persona in più da scolarizzare e non un paio di braccia in più da destinare all'agricoltura.

Energia e CO2 nel 2052
Circa l’87% dell’energia attualmente usata deriva da tre combustibili fossili: carbone, petrolio e gas. La parte rimanente è coperta per il 5% dall'energia nucleare e per l’8% da fonti rinnovabili (biomasse, idroelettrico e da un piccola - ma in rapida crescita – quota di eolico e fotovoltaico).
Possiamo aspettarci, sempre secondo l’autore del libro, che l’utilizzo di energia crescerà all'aumentare dell’attività economica e che dunque in proporzione verrà emessa maggiore quantità di CO2 in atmosfera almeno fino a quando non decideremo di passare all'utilizzo in maniera consistente delle energie rinnovabili. Di conseguenza fino a quel momento assisteremo ad un progressivo aumento delle temperature medie anche perché abbiamo ancora a disposizione sul pianeta una quantità di combustibili fossili più che sufficiente ad alimentare il mondo ben oltre il 2052 anche se a costi più elevati di quelli attuali in quanto i combustibili pur disponibili presentano maggiori difficoltà di estrazione. E’ ipotizzabile che i combustibili fossili verranno col tempo sostituiti dalle rinnovabili; tuttavia questo passaggio avverrà in maniera graduale e comunque non in modo definitivo almeno sino a quando i costi delle energie amiche del clima si saranno abbassati. Nel 2052 – ecco la previsione - più della metà dei consumi mondiali di energia saranno ancora coperti da fonti fossili. Sul piano dell’efficienza energetica nel frattempo avremo fatto passi avanti anche se ancora non definitivi: circa un 30% in più rispetto ad oggi.

Se l’umanità continuerà a bruciare carbone, petrolio e gas fossili secondo il mix attuale, le emissioni di CO2 derivanti dalla produzione di energia cresceranno del 50% entro il 2052, il che potrebbe significare un aumento medio delle temperature terrestri di ben oltre i 2 °C e molto più elevato dopo quella data. Secondo Randers però questo non si verificherà. Il consumo di combustibili fossili nel 2052 sarà in declino, il contributo del nucleare in diminuzione ed il vero vincitore saranno le rinnovabili che, assieme, nel 2050 dovrebbero raggiungere circa il 37% della torta energetica. Il passaggio verso le rinnovabili sarà in parte rallentato dall'esistenza di una soluzione transitoria assai economica: la sostituzione del carbone col gas, (ndr.: in particolare lo shale gas, di cui riparlo più avanti) soluzione migliorativa (due terzi di CO2 in meno prodotti) ma non definitiva. Anche il nucleare si avvierà verso un lento ma inesorabile tramonto, secondo Randers, sostanzialmente a causa di due fattori: gli eccessivi costi di realizzazione delle centrali ed il pericolo di possibili attentati terroristici influiranno ancor più del timore sulla scarsa sicurezza degli impianti.

Lo sviluppo delle fonti rinnovabili deriverà soprattutto dall'eolico off shore nei mari e dai pannelli solari collocati nelle zone desertiche o, in modo invisibile, sui tetti degli edifici, integrati da biomasse ottenute da piantagioni specificamente coltivate su terreni degradati.

Le emissioni di CO2 aumenteranno fino a raggiungere il picco nel 2030 per poi iniziare a diminuire. Secondo il nostro scienziato norvegese le emissioni mondiali di CO2 derivanti dall'utilizzo di energia nel 2052 saranno un buon 40% più alte delle emissioni globali del 1990. Tuttavia inizieranno a diminuire ed è ipotizzabile che si arrivi per quell'epoca a pareggiare il livello di emissioni odierno. Di certo però, il mondo avrà perso l’occasione per contenere l’aumento del riscaldamento globale sotto i 2°C concordati a livello internazionale. L’aumento della temperatura media nel 2052 sarà di oltre 2 °C in tutto il pianeta.

Come conseguenza dell’aumento medio delle temperature nei prossimi decenni l’umanità sperimenterà un numero crescente di impatti climatici. Assisteremo con sempre e progressiva maggiore frequenza ad eventi meteorologici estremi (alluvioni, siccità, frane, tornado e uragani, oltretutto in luoghi atipici), allo sbiancamento delle barriere coralline, alla morte di vaste porzioni di foreste, ad infestazioni di insetti. Senza parlare dell’effetto più ovvio: la fusione del ghiaccio artico, la riduzione dei ghiacciai e l’aumento del livello medio dei mari di circa 30 centimetri. Infine assisteremo allo spostamento di circa 100 chilometri verso i poli delle zone climatiche ed all’espansione dei deserti in nuove aree ai tropici.

Cibo e Impronta ecologica verso il 2052
Un’altra delle domande cruciali è quella: avremo cibo a sufficienza? La risposta è: “PROBABILMENTE SI’”, almeno fino al 2052. La domanda di cibo in realtà non aumenterà quanto si teme per una serie di ragioni: la popolazione mondiale sarà più numerosa dell’attuale ma meno di quel che ci attendevamo; anche se tante persone povere mangeranno meglio di quanto facciano oggi, molti ricchi consumeranno molta meno carne rossa. Ma saranno ancora molti quelli che continueranno a morire di fame. Assisteremo ad una sempre maggiore diffusione degli OGM perché essi aiuteranno a incrementare i raccolti nelle regioni troppo aride o troppo umide e l’umanità accetterà i rischi che gli OGM possono comportare nel lungo periodo a fronte dei benefici ottenibili nel breve. L’agricoltura, man mano che ci avvicineremo al 2052, sarà sempre più colpita dal cambiamento climatico. Assisteremo contemporaneamente a due effetti contrapposti. L’aumento di CO2 in atmosfera favorirà una crescita più rapida ovunque delle piante ma al contempo l’innalzamento delle temperature causerà l’effetto contrario (con conseguente perdita di produttività del terreno), almeno nelle zone che saranno più colpite dal progressivo inaridimento. Parte dei terreni verrà utilizzata per la produzione di biocombustibili a scapito della produzione agricola e questo causerà un aumento del prezzo del cibo. Mangeremo sempre più carne bianca. (Occorrono circa 7 Kg di grano per produrre un Kg di carne rossa, mentre ne bastano 2 per un chilo di pollo). Mangiare meno sarà considerato più raffinato, almeno tra le popolazioni benestanti. Il pesce di alta qualità, specie quello non proveniente da acquicoltura, finirà solo nei piatti dei più ricchi.

L’Impronta Ecologica dell’umanità è praticamente raddoppiata dal 1970 a oggi. Nel 2010 essa era già del 40% superiore alla capacità di carico del pianeta. In altre parole l’umanità stava e sta già occupando 1,4 pianeti per il proprio utilizzo di grano, carne, legna, pesce, spazio urbano ed energia. Qualcuno si chiederà come sia possibile. L’attuale superamento è giustificabile dal fatto che l’impronta include nel suo conteggio anche la quantità di foreste che sarebbe necessaria per assorbire tutta la CO2 che viene emessa per la produzione di energia. Ma questo territorio non esiste più e la CO2 non viene assorbita del tutto dalle piante finendo con l’accumularsi in atmosfera. La quantità di foreste che sarebbe necessaria è circa il doppio di quella attualmente disponibile. Come conseguenza stiamo sperimentando un graduale e insostenibile (anche se lento) riscaldamento del pianeta. A questo punto ci restano solo due strade: la riduzione gestita oppure il collasso naturale. Quando probabilmente sarà ormai troppo tardi per evitare seri danni e di fronte ad eventi meteorologici sempre più frequenti ed estremi anche la maggioranza degli individui della nostra specie arriverà alla conclusione che è necessario un radicale cambiamento delle nostre abitudini.

La quantità di terra non utilizzata dagli uomini si ridurrà drammaticamente fino ad arrivare a meno del 20% nel 2052. La disponibilità pro capite di natura precipiterà dagli 1,2 ettari globali a persona nel 1970 a 0,3 ettari  pro capite nel 2052 (il 75% in meno!). La natura indisturbata sarà limitata alle aree protette dove cercherà di sopravvivere ma con non poche difficoltà. Infatti nemmeno nei recinti di un parco nazionale la flora e la fauna saranno in grado di difendersi dal cambiamento climatico che nel frattempo starà spostando gli ecosistemi verso il nord e il sud dei rispettivi emisferi. A distanza di qualche decina di anni gli ecosistemi si saranno spostati fuori dai confini del parco. O sulle alture che dominano il parco. Nei prossimi 40 anni le zone climatiche si muoveranno verso i poli di circa 5 km all’anno e su per le montagne di circa 5 metri all’anno. In 40 anni cioè assisteremo a spostamenti di 80 Km a nord ( o a sud a seconda dell’emisfero) e di 200 metri in altitudine.

Riflessioni sul futuro che attende le nuove generazioni
Sulla base di queste previsioni Randers, nella seconda parte del suo studio, cerca di analizzare le principali conseguenze che si avranno per l’umanità (in termini di abitudini e comportamenti) che - ed è questa in fondo la principale buona notizia - nonostante tutto, sopravvivrà.

Così come l’età della pietra non è terminata per mancanza di pietre, l’era dei combustibili fossili non finirà per la mancanza di petrolio, gas o carbone. Semplicemente gli esseri umani non ne avranno più bisogno: risparmieremo sull’utilizzo delle risorse, aumenteremo la nostra efficienza energetica ed il consumo di energie fossili non crescerà perché sfrutteremo di più le rinnovabili. L’abbandono dei combustibili fossili però non avverrà con la necessaria rapidità utile ad evitare il riscaldamento del pianeta. Perciò dovremo affrontare i problemi che ne deriveranno. L’umanità cercherà di aumentare gli investimenti annuali in misure di protezione: per riparare i danni subiti ad esempio da uragani e alluvioni, per adattarsi (ad es. costruendo nuove dighe per contrastare l’aumento del livello del mare) oppure per sviluppare nuove tecnologie (ad esempio l’energia solare oppure il CCS, il sistema di stoccaggio dell’anidride carbonica nel sottosuolo). Senza dubbio questi investimenti ridurranno i danni, faranno incrementare il PIL mondiale, ma certo non incrementeranno i consumi e questo rappresenta l’altra buona notizia: un tasso di crescita inferiore ridurrà l’impatto dell’umanità con i limiti del pianeta.

Sul piano politico la questione principale del nostro futuro non consisterà nel risolvere i problemi che ci troveremo di fronte, ma piuttosto nel trovare l’accordo per farlo. Secondo Randers il mondo sarà infatti sufficientemente stupido da posticipare le azioni necessarie a causa dell’interesse a breve termine di coloro che lo governano, ovvero le maggioranze democratiche ed il sistema capitalistico.

Perderemo con molta probabilità le barriere coralline, la taiga e le foreste pluviali con tutta la loro biodiversità, ma noi esseri umani sopravviveremo anche se in un mondo diverso da quello attuale.
Sul piano economico assisteremo alla nascita di una nuova egemonia a scapito degli Stati Uniti: quella della Cina. Il passaggio della leadership mondiale dagli Stati Uniti alla Cina avverrà senza conflitti militari e piuttosto pacificamente. Nel 2052 la Cina avrà una popolazione tre volte e mezzo più grande di quella degli USA, la sua economia sarà due volte e mezzo più sviluppata e la produzione e i consumi procapite dei cinesi supereranno quelli americani di oltre il 70%. La Cina sarà la forza trainante del pianeta, secondo Randers.   La Cina possiede già 1.000 miliardi di dollari del debito pubblico americano. Essa possiede inoltre abbastanza carbone e gas da scisti per far girare la propria economia in questa fase di transizione. I gas da scisti o shale gas sono considerati la nuova frontiera nel campo dell’energie fossili. Grazie a nuove tecniche estrattive oggi è possibile estrarre da particolari tipi di rocce (scistose, appunto) il gas imprigionatovi. Le riserve accertate di questo gas, in prevalenza metano, sono estremamente abbondanti (nei soli USA ammonterebbero a ben 23.000 miliardi di metri cubi) e tali da garantire una relativa autonomia energetica a buon mercato per i Paesi che le possiedono. Ma la Cina possiede anche una comprensione dei rischi climatici tale da poter lavorare in anticipo per limitare i danni, una sufficiente tradizione di indipendenza ed un sistema di governo centralizzato e sufficientemente autoritario da agevolare la rapidità di certe scelte. “Fare di più con meno” sarà il mantra della crescita cinese, volta a perseguire l’obiettivo degli ultimi 2.000 anni: essere autosufficiente e indipendente dai barbari che vivono fuori dai propri confini.

Gli americani, allora, come reagiranno? Senza grandi eccessi, semplicemente perché avranno per quell’epoca sufficienti risorse interne da garantirsi a loro volta l’autosufficienza, anche se a discapito della leadership internazionale. Si comporteranno un po’ da nobili decaduti che conservano tuttavia risorse sufficienti a vivere più che decorosamente anche se non più con i fasti e gli eccessi di un tempo. Si troveranno cioè a ricoprire il ruolo dell’Europa dopo le due guerre mondiali: saranno un paese un po’ più provinciale ma comunque abbastanza soddisfatto di sé. Sia la Cina che gli Stati Uniti saranno colpiti dai cambiamenti climatici, ma entrambi i paesi sono talmente estesi da comprendere anche territori che verranno colpiti relativamente meno.

Debito e Pensioni, come reagiranno le nuove generazioni?
Nel mondo ricco, proprio quella generazione che ha creato un gigantesco debito nazionale e ha dato vita ad un enorme sistema pensionistico (privo della necessaria copertura economica) sta per andare in pensione. Randers nutre forti dubbi sul fatto che le nuove generazioni accettino in futuro di sostenere questo fardello e pagare debito e pensioni. Esse non potranno cioè essere fisicamente costrette a farlo se non lo vorranno ed in questo caso i più anziani potranno fare ben poco. Alcuni debiti non verranno mai ripagati e una quota parte delle pensioni semplicemente finirà per non essere accreditata sui conti correnti degli interessati. (ndr: a tale proposito forse varrebbe la pena di rivalutare, almeno come italiani, la tanto vituperata riforma Fornero).

Consigli per le nuove generazioni
Ribadito che la società globale dovrebbe innanzitutto accrescere l’efficienza energetica, passare alle energie rinnovabili, interrompere la distruzione delle foreste e realizzare impianti di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS), ma che il problema delle soluzioni climate-friendly è che attualmente esse sono più costose della soluzione più economica: non fare nulla e continuare come se niente fosse – ragion per cui ancora procederemo a rilento verso i nuovi paradigmi - lo scienziato norvegese, a chiusura della sua analisi, avanza alcuni suggerimenti tra i quali i principali sono i seguenti:
-          Imparare a vivere in un appartamento situato in ambiente urbano (vivere in luoghi ameni ed isolati sarà in futuro sempre più difficile e costoso);
-          Investire nell’elettronica d’intrattenimento ed imparare ad amarla (le immagini diverranno tridimensionali e forse anche gli odori saranno aggiunti all’esperienza); è lecito chiedersi inoltre, secondo l’autore, se in futuro avremo ancora voglia di sobbarcarci lunghi e costosi viaggi quando potremo sperimentare praticamente quasi tutto standosene comodamente seduti nel divano di casa (probabilmente anche i viaggi turistici per ammirare i capolavori dell’arte nei grandi musei saranno sostituiti da comode guide multimediali in 3D che oltretutto ridurranno di molto l’impronta ecologica di un vero viaggio);
-          Dato che ormai l’umanità sta eliminando la natura incontaminata dal pianeta: evitare di insegnare ai nostri figli ad amare qualcosa di cui non potranno mai godere e, se proprio amiamo la biodiversità e le bellezze del mondo, andare a visitarle subito e comunque prima che sia troppo tardi;
-          Cambiare residenza scegliendo un luogo e una nazione che in futuro siano meno esposti di altri agli effetti del cambiamento climatico (Nord Europa, Cina e Canada, i suggerimenti principali);
-          Scegliere una professione nel campo dei servizi o dell’assistenza, oppure buttarsi nel settore dell’efficienza energetica o delle energie rinnovabili;
-          Incoraggiare i propri figli a studiare la lingua cinese;
-          Imparare a convivere con imminenti disastri ambientali;

Che fare, allora?
Alla luce di quanto sopra, ecco di cosa proverò a convincere i miei figli: trasferirsi a Oslo a vivere in un appartamento di un condominio ad alta efficienza energetica, parlare correntemente il cinese e mettere al mondo al massimo un figlio al quale mostrare i capolavori degli Uffizi grazie ad un programma tridimensionale sul televisore di casa in Norvegia senza il bisogno di venire di persona a Firenze. Quanto alla professione da scegliere, credo che avrò già sufficienti sensi di colpa così, senza bisogno di influenzare anche questa loro scelta (sempre che siano così fortunati da poterla fare!). Facciano quello che più li rende felici, almeno in campo professionale.
Qualcuno poi potrebbe chiedermi: e tu, invece?
Sto scrivendo queste righe all’ombra di un boschetto di macchia mediterranea sul litorale tirrenico della Toscana, a pochi passi dal mare. Non solo mi sembra paradossale  che per colpa di scelte scioccamente e troppo a lungo procrastinate, tutto questo un giorno possa non esistere più, ma aborrisco l’idea stessa di poter abbandonare e non poter più immergermi in tanta pace e bellezza.
No, io da qui non mi muovo. Piuttosto aspetterò che sia il mare a portarmi via con sé.

Michele Salvadori




domenica 22 luglio 2012

State of the World 2012


Il consueto Rapporto annuale del Worldwatch Institute è stato dedicato quest’anno alle tematiche della green economy allo scopo di avviare un dibattito propedeutico al Summit di Rio de Janeiro, tenutosi lo scorso giugno, nello stesso luogo dove era stato realizzato esattamente 20 anni fa.
Ma se il Summit del 1992 resta tutt’oggi un momento storico per il mondo ambientalista per la portata delle decisioni varate allora, non altrettanto si può affermare per i risultati raggiunti dal meeting di quest’anno, di fatto bloccato da tutta una serie di veti incrociati tra le nazioni partecipanti.
Eppure l’edizione 2012 di State of the World a me è parsa tra le migliori degli ultimi anni per le tematiche affrontatevi e per la notevole serie di proposte ed esempi concreti in essa riportate dai vari esperti che hanno redatto le singole parti di questo corposo rapporto sullo stato del nostro pianeta.
Volendo utilizzare un termine per classificare il volume - edito come da molti anni per l’Italia dalle Edizioni Ambiente, (pp. 390, €. 24,00) – io lo definirei un testo all’insegna del “downshifting”.
Il quadro che ci viene mostrato dai redattori del Worldwatch Institute è in effetti quello di un pianeta, la Terra, ormai ridotta allo stremo proprio a causa delle scelte compiute dall’uomo. La grave crisi economica che stiamo attraversando potrebbe essere assunta ad emblema, metafora, naturale conseguenza di queste scelte. 
Gianfranco Bologna, nella sua consueta introduzione al rapporto, cita la copertina di The Economist che lo scorso maggio 2011 riportava il titolo: “Welcome to the Anthropocene. Geology’s new age”. Ormai l’idea di vivere in un mondo sempre più dominato dalla specie umana sta uscendo dallo stretto ambito della ricerca scientifica e permeando la nostra cultura diffusa.
Il libro è una vera miniera di dati emblematici in tal senso. Ne cito solo alcuni a titolo d’esempio:

  • -      la concentrazione di biossido di carbonio in atmosfera ha raggiunto nel febbraio 2012 il livello di 393,65 ppm. Nel 1959, primo anno in cui essa venne calcolata, essa era di 315,98 ppm.
  • -       il 31 ottobre 2011 la Terra ha raggiunto i 7 miliardi di abitanti; il primo miliardo era stato raggiunto solo ad inizio Ottocento, il secondo ad inizio Novecento, il terzo miliardo nel 1959, il quarto nel 1974 … l’ottavo miliardo dovrebbe essere raggiunto nel 2025.
  • -      dagli anni ’70 i livelli di motorizzazione hanno conosciuto un’incessante crescita globale; nel 1990 erano in circolazione sulla Terra 500 milioni di auto; oggi se contano circa 800 milioni e l’AIE (Agenzia Internazionale per l’Energia) prevede che per il 2050 saliranno a 2-3 miliardi.
Partendo da questi presupposti risulta evidente come la prospettiva di uno sviluppo sempre più ampio della cosiddetta green economy, intesa come un’economia che produca un miglioramento del benessere umano e dell’equità sociale, contestualmente ad una significativa riduzione dei rischi ambientali, ovvero di un’economia a bassa intensità di carbonio e sempre più efficiente nell’utilizzo delle risorse, rappresenta non solo una valida alternativa ma anche, ormai, una strada obbligata.

Uno dei motti che sintetizza molti degli interventi riportati in questo volume potrebbe essere quello del “fare di più con meno” caro ai cosiddetti filosofi della decrescita. Il tema è stato più volte trattato su questo blog ma per comodità cerco di riportarne qui una breve sintesi: con il termine decrescita s’intende un’inversione di tendenza volontaria delle economie che si allontanino dal perseguimento della crescita infinita per tornare ad essere in linea con i confini planetari, ad un sistema economico allo stato stazionario che sia in equilibrio con i limiti della Terra. Primo teorico di questa idea fu l’economista rumeno N. Georgescu-Roegen ma ormai sono molti i suoi sostenitori. Uno su tutti è SergeLatouche che da ormai diversi anni si sforza di spiegare come il concetto di decrescita non è sinonimo di decadenza o sofferenza, bensì paragonabile ad una dieta sana seguita volontariamente per migliorare il benessere di una persona. Molto interessante in proposito la sua ultima pubblicazione in Italia dal titolo “Per un’abbondanza frugale” (Ediz. Bollati Boringhieri, pp. 150, €. 15,00) in cui egli ribadisce ancora una volta i punti cardine del suo pensiero improntato ad una radicale critica del liberalismo, inteso come insieme di valori alla base della società dei consumi, ribadendo la sua proposta incentrata sulle cosiddette otto “R” (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare). Anche l’economista Tim Jackson si avvicina a questa teoria parlando, nel suo omonimo libro, di “Prosperità senza crescita” (Ediz. Ambiente 2011, pp. 300, €. 24,00) ovvero prospettando anch’egli un’idea di sviluppo economico non più improntata ad uno stile di vita consumistico, ma piuttosto alla prospettiva di una società florida in quanto luogo dove sia possibile vivere una vita migliore lavorando meno e consumando meno.Questo ultimo testo è già stato commentato su questo blog e puoi leggere la recensione cliccando sul titolo sopra riportato.

Sono molti i paradossi che possiamo individuare nella società dei consumi di oggi. Negli Stati Uniti, ad esempio, due adulti su tre risultano sovrappeso oppure obesi e questo riduce molto la qualità della loro esistenza e la loro aspettativa di vita. Inoltre questo costa al paese un extra di 270 milioni di dollari all’anno per spese mediche e perdita di produttività per morti premature ed invalidità. La sola industria alimentare negli Stati Uniti guadagna fino a 100 miliardi di dollari l’anno sull’obesità. Ma giustamente il Rapporto fa notare come l’obesità sia solo uno degli effetti collaterali al sovrasviluppo. Maggior indebitamento, orari di lavoro prolungati, dipendenza farmacologica, perdita di tempo nel traffico e addirittura più elevati livelli di isolamento sociale sono dovuti, almeno in parte, a stili di vita con alti livelli di consumo.
Citando un passo del testo, “puntare alla decrescita, oltre a ridurre gli effetti collaterali fisici e sociali della ossessiva aspirazione alla crescita, ridurrebbe l’impatto ambientale dell’economia umana poiché alcune popolazioni consumerebbero meno cibo, risorse ed energia”.


Il breve cartone animato, qui sotto visionabile e prodotto dalla The New Economics Foundation raffigura in maniera impeccabile l’assurdità della crescita infinita. Se un criceto non smettesse di crescere una volta raggiunta l’età adulta, arriverebbe a 9 milioni di tonnellate al suo primo anno di vita e in un solo giorno potrebbe mangiare il grano prodotto ogni anno in tutto il mondo. E avrebbe ancora fame. La voce narrante conclude: “C’è un motivo per cui in natura le cose crescono solo fino ad un certo punto, quindi perché gli economisti e i politici pensano che l’economia possa crescere all’infinito?”


Un capitolo di State of the World 2012 è dedicato alla pianificazione dello sviluppo urbano. Ormai la popolazione mondiale e la produzione economica si stanno spostando sempre più nelle aree urbane. Oltre il 70% degli abitanti del Nord America, America Latina ed Europa vivono già nelle grandi città. In quanto motori di crescita economica, le città stanno diventando sempre più importanti per la produzione economica e sul fronte occupazionale. Le Megalopoli – città con più di 10 milioni di abitanti – negli ultimi 20 anni sono più che raddoppiate ed oggi ospitano già il 7% della popolazione mondiale. In testa alla classifica delle città più abitate del pianeta troviamo Tokyo con i suoi 36,7 milioni di abitanti seguita da Delhi con 22,2 milioni (nel 1990 quest’ultima era ancora all’undicesimo posto). Secondo le previsioni entro il 2025 le megalopoli sul pianeta saranno già 27 (oggi sono 21). Eppure, se queste aree verranno pianificate in maniera strategica, esse potranno offrire importanti opportunità in termini di risparmio energetico, trasporti collettivi e produzione del cibo, facilmente immaginabili laddove si riscontra una notevole densità abitativa che, se sfruttata in modo intelligente, potrebbe portare ad un notevole abbassamento dei costi di gestione di questi insediamenti. Delhi - cita ancora State of the World a titolo di esempio - ha progettato un sistema per l’approvvigionamento idrico che raccoglie l’acqua piovana incrementando il livello delle falde; a Dhaka è stato costruito un impianto di compostaggio che può processare fino a 700 tonnellate di rifiuti organici al giorno.

Il problema dei trasporti è giudicato dal Worldwatch Institute come un altro settore strategico la cui pianificazione risulta fondamentale. Ad esempio, è statisticamente dimostrato come la costruzione di arterie ad alto scorrimento in città e la capacità dei parcheggi per le auto private non solo non decongestionano la rete dei trasporti ma inquinano anche l’aria urbana, accelerando il processo dei cambiamenti climatici e aumentano la dipendenza dalle importazioni di combustibile per quei paesi, come l’Italia che sono prive di materie prime. Inoltre contribuiscono all’aumento delle malattie respiratorie e delle morti per incidenti da traffico, oltre a causare spreco di tempo e denaro per gli spostamenti rallentati. Ma tutto questo si può evitare. Investimenti in sistemi di trasporto più sostenibili possono generare più posti di lavoro, tutelando allo stesso tempo l’ambiente. Un autobus con una capienza massima di 50-70 persone occupa approssimativamente lo stesso spazio di tre automobili che in media trasportano 6 passeggeri. (ndr: provate ad osservare i passeggeri a bordo delle auto che intasano un viale in una normale giornata lavorativa: scoprirete che la maggioranza è composta da una sola persona … !) Eppure le soluzioni ci sarebbero già: dal bike-sharing (Parigi, Shanghai, Barcellona, ma anche ormai molte città italiane) al car-sharing, agli autobus a trasporto rapido (Bogotà, Guangzhou), dalle normative che disincentivano l’uso dei veicoli privati a motore (Singapore, Londra, Stoccolma, Milano) al miglioramento dell’efficienza dei veicoli (Giappone, California, Unione europea).

Un altro tema particolarmente approfondito da questa edizione del Rapporto sullo stato del pianeta è quello della sovrappopolazione. L’umanità potrebbe passare realmente dagli attuali 7 miliardi ai 9 miliardi previsti entro la metà del secolo, per poi assestarsi attorno ai 10 miliardi nel corso del 22° secolo. Robert Engelman, Presidente del Worldwatch Institute, sostiene che questo deve essere impedito e che le possibilità per farlo già oggi ci sono, soprattutto intervenendo nel campo della contraccezione ed in quello dell’istruzione; le statistiche a riguardo sembrerebbero infatti dimostrare che più s’innalza il livello di istruzione di una popolazione (in particolare quello femminile) e più si abbassa il numero medio di figli per famiglia. In proposito però sono io a nutrire qualche scetticismo. Risulta evidente infatti che, similmente a quanto già oggi sta avvenendo nel nostro paese, seguendo questa strategia una sempre minore percentuale di popolazione lavorerebbe e verserebbe  i contributi per la pensione e l’assistenza sanitaria di un numero invece sempre crescente di persone anziane che non lavorano più. Siamo proprio sicuri che questo compromesso sia accettabile in cambio di una vita più lunga ed in un mondo meno popoloso anche se meno inquinato?

Un tema sul quale invece torno in sintonia con gli autori del Rapporto è quello dedicato all’impatto ambientale causato dagli animali domestici. Oltre alla popolazione umana, c’è un’altra popolazione che cresce rapidamente nel mondo: quella dei cani e dei gatti domestici. Negli Stati Uniti – riporta sempre l’annuario - ci sono 61 milioni di cani e 76,5 milioni di gatti. In termini di alimentazione – citando State of the World – “un cane di taglia grande utilizza 0,36 ettari di risorse l’anno, un cane di taglia piccola 0,18 e un gatto 0,13 ettari. In confronto un’abitante del Bangladesh usa in media 0,6 ettari di risorse l’anno in totale, meno di due pastori tedeschi in un anno. (…) Dar da mangiare agli animali domestici americani ha un impatto ambientale pari alle popolazioni di Cuba e Haiti messe assieme.” Non parliamo poi di tutto il merchandising legato al mondo degli animali d’affezione: abbigliamento su misura, giocattoli, sofisticate cure veterinarie, servizi di dog-sitter, saloni di bellezza, e altro ancora. Ogni anno si spendono per il solo cibo per gli animali domestici qualcosa come 42 miliardi di dollari a livello globale. Se dobbiamo ridurre la popolazione umana credo sia altrettanto giusto ridurre anche quella degli animali domestici. E, se proprio vogliamo avere un animale in casa, adottiamo uno dei tanti che purtroppo vengono abbandonati e sono costretti a vivere in strutture di ricovero che oltretutto rappresentano un costo per le nostre comunità. Possedere un animale domestico oggi è un lusso che comporta un notevole costo anche in termini ecologici anche se, facendo tale affermazione, so già di attirarmi le ire di molti animalisti che la pensano in maniera totalmente diversa.

La critica più accanita State of the World 2012 la riserva alla filosofia consumistica ancora imperante nel mondo odierno. Citando proprio uno studio dei Friendsof the Earth Europe, si ricorda come oggi vengano prelevate in generale 60 miliardi di tonnellate di risorse naturali ogni anno: circa il 30% in più rispetto ad appena 30 anni fa. Nel 2000 ogni americano ha consumato 88 chili di risorse al giorno; ogni europeo 43; ogni abitante dell’America Latina 34. Il fatto più rilevante è che tali risorse non sono impiegate solo per soddisfare necessità primarie come cibo, protezione, vestiti e trasporti, ma anche per “collezionare” quei prodotti di consumo in gran parte superflui e comunque non indispensabili. Nel solo 2008 sono stati globalmente acquistati 68 milioni di veicoli, 85 milioni di frigoriferi, 297 milioni di computer, 1,2 miliardi di telefoni cellulari. Tutti questi numeri sono destinati inevitabilmente a crescere man mano che nuovi individui entreranno a far parte della classe dei consumatori.
Eppure, secondo un numero sempre maggiore di studi, il benessere raramente è connesso alla crescita dei consumi.
Raggiungere la sostenibilità e consumi sostenibili richiederà uno sforzo concertato da parte di tutti, dai governi ai singoli produttori, dalla società civile ai singoli consumatori. Cambiare le abitudini di consumo significa cambiare un aspetto molto importante nella cultura di qualunque società.

Sostiene Michael Renner, condirettore di State of the World 2012, “l’umanità si comporta come se le risorse fossero infinite, come se gli ecosistemi fossero irrilevanti per l’esistenza umana, come se ci fosse una Terra 2.0 di riserva nel caso in cui dovessimo riuscire a devastare questa.” Sappiamo bene che non è così.
La strada per imparare a vivere nei limiti di un solo pianeta  è certamente difficile, eppure anche affascinante e stimolante. Troveremo la forza di portarla avanti?

Michele Salvadori

lunedì 16 maggio 2011

"Gaia" di James Lovelock

Come avviene in campo letterario, anche in quello scientifico e ambientalista si possono individuare dei testi che col tempo hanno assunto la fisionomia di “classici” del settore e dunque acquisito un proprio valore storico ancorchè, sul piano scientifico, abbiano inevitabilmente perduto quella validità che potevano possedere al momento della loro prima pubblicazione.

E’ il caso di “Gaia”, il celeberrimo libro scritto da James Lovelock nel 1979 che ha di fatto rivoluzionato l’ecologia e gli studi sull’ambiente offrendo una prospettiva nuova al settore degli studi dedicati all’ambiente. Questo testo che solo in Italia è stato pubblicato ben 4 volte (1979, 1987, 1995 e 2000) viene adesso riproposto dal suo editore (Bollati Boringhieri) in una nuova edizione 2011 (la quinta!) a dimostrazione del continuo interesse suscitato dai suoi contenuti che, se all’epoca del sua prima uscita suscitarono scarso interesse e condivisione delle teorie illustratevi, col tempo ha acquisito un numero sempre maggiore di sostenitori.

A differenza di un testo letterario, uno di carattere tecnico è condannato inevitabilmente a subire in modo repentino il passare degli anni. Qualunque teoria scientifica a distanza di pochi anni rischia di essere superata da nuove ricerche e scoperte. E’ in fondo uno degli aspetti positivi del nostro sapere quello di essere in continua evoluzione. Questa regola vale naturalmente anche per “Gaia”, la cui lettura odierna mostra inevitabilmente i segni del tempo ma che risulta ancora oggi di grande interesse, oltre a suscitare notevole ammirazione nei confronti del suo autore per il messaggio estremamente innovativo che egli seppe creare (se pensiamo, appunto, che lo fece ben oltre trent’anni fa!).

E qual è allora in sintesi la teoria illustrata in questo testo? Negli anni ’70, anche a causa della prima crisi petrolifera che costringe l’umanità a porsi i primi interrogativi sull’eccesso di consumi energetici, si assiste alla nascita dei principali movimenti ambientalisti e si sviluppa il primo serio dibattito su queste tematiche che vede svilupparsi due netti fronti contrapposti tra loro; quello dei cosiddetti “catastrofisti” che ritenevano che la Terra si sarebbe progressivamente raffreddata, che prevedevano la glaciazione anche del Mar Mediterraneo lasciando all’uomo poche possibilità di scampo; e quello dei loro detrattori, gli “ottimisti”, che erano invece sin troppo fiduciosi riguardo alle sorti del nostro pianeta a prescindere dai metodi utilizzati dall’uomo per attingere alle sue risorse.
James Lovelock
Di fronte a queste due strade, Lovelock – e qui sta la sua grande novità – propone un’ipotesi in qualche modo equidistante da entrambe. Nella sua prima formulazione l'ipotesi Gaia, che altro non è che il nome del pianeta vivente (derivato da quello dell'omonima divinità femminile greca, nota anche col nome di Gea), si basa sull'assunto che gli oceani, i mari, l'atmosfera, la crosta terrestre e tutte le altre componenti geofisiche del pianeta Terra si mantengano in condizioni idonee alla presenza della vita proprio grazie al comportamento e all'azione di tutti quegli organismi che concorrono a formarla; la Terra (Gaia, appunto) è, secondo lo scienziato inglese, un unico organismo vivente capace di autoregolarsi e di rispondere a tutti quei fattori nuovi e avversi che ne turbano gli equilibri naturali. La materia vivente non rimane passiva di fronte a ciò che minaccia la sua esistenza. Ad esempio la temperatura, lo stato d'ossidazione, l'acidità, la salinità e altri parametri chimico-fisici fondamentali per la presenza della vita sulla Terra, presentano valori costanti. Questa omeostasi (la condizione di relativa stabilità interna ad un organismo, che deve mantenersi anche al variare delle condizioni esterne attraverso meccanismi autoregolatori) è l'effetto dei processi di feedback (la risposta ad un determinato effetto) attivo svolto in maniera autonoma e inconsapevole dal biota (l'insieme della vita vegetale e animale che caratterizzano una certa regione o area). Inoltre tutte queste variabili non mantengono un equilibrio costante nel tempo ma evolvono in sincronia con il biota. Quindi – afferma Lovelock - i fenomeni evoluzionistici non riguardano solo gli organismi o l'ambiente naturale, ma l'intera Gaia fornendo al contempo una risposta anche a coloro i quali ritengono la natura come una forza primitiva da soggiogare e da conquistare.

Naturalmente la teoria di Gaia è suffragata da una serie di dati e controprove che ci vengono illustrate in dettaglio nel testo che pur ha il grande pregio di utilizzare toni divulgativi che lo rendono accessibile anche ad un pubblico non troppo preparato alle tematiche affrontate.

Ma gli spunti di riflessione che questo testo ci offre sono davvero molti anche ad una sua lettura in chiave storica. Ad esempio la fine degli anni ’70 è l’epoca delle prime ipotesi di vita su altri pianeti. Vengono inviati i primi satelliti (il Viking, ad esempio) alla ricerca di elementi utili a stabilire la possibilità di vita in ambienti diversi dalla Terra. Lovelock ne trae spunto per affrontare delle considerazioni sul concetto stesso di vita. “Come possiamo essere sicuri – egli si chiede - che il tipo di vita su Marte, se esiste, possa rivelarsi con degli esami basati sul genere di vita della Terra?” e ancora: “Che cos’è la vita e come dovrebbe essere identificata?” Domande, a mio parere, ancora oggi senza una risposta definitiva.

Come primo argomento a favore della sua teoria, Lovelock utilizza il raffronto tra pianeti quali Marte, Venere e la Terra. Mentre la condizione di grande acidità atmosferica sia di Marte che di Venere ha reso su entrambi questi pianeti di fatto impossibile lo sviluppo della vita, (almeno per come lo intendiamo noi), sulla Terra si sono create delle eccezionali condizioni di neutralità chimica tali da favorirla, ma soprattutto, tali condizioni di neutralità si sono mantenute nel corso di milioni di anni a prescindere da eventi, anche traumatici, che pure l’avrebbero dovuta modificare drasticamente e forse irrimediabilmente. “Tutto questo è semplicemente dovuto al caso?”, si chiede l’autore.

E ancora. La Terra gira intorno a un’incontrollata fonte irradiante di calore, il Sole, la cui radiazione non è per nulla costante. Eppure fin dall’inizio della vita, circa tre miliardi e mezzo di anni fa, la temperatura media della Terra non si è mai scostata per più di alcuni gradi dai suoi attuali livelli. Non è mai stato troppo caldo o troppo freddo per la sopravvivenza della vita sul nostro pianeta.

Il ragionamento poi prosegue con l’analisi dei singoli gas componenti l’atmosfera: dal principale per noi, l’ossigeno, la cui percentuale (21%) resta miracolosamente costante e tale da consentire lo sviluppo della vita sul pianeta ed al contempo senza raggiungere valori appena di poco superiori (basterebbe il 25%!) da rendere la nostra atmosfera facilmente incendiabile! Fino all’ammoniaca, derivato dell’azoto, avente lo scopo principale, secondo Lovelock, di regolare appunto l’acidità dell’ambiente consentendo, ad esempio, alla pioggia di mantenere un PH vicino ad 8, ottimale per la vita, quando in assenza di ammoniaca in atmosfera il valore del PH sarebbe vicino a 3 ovvero estremamente acido (è il valore del nostro aceto). A questo proposito fa sorridere una prima constatazione di carattere storico quando, in merito alla questione dell’acidità atmosferica, l’autore parla delle prime ipotesi relative alle cosiddette “piogge acide” in Scandinavia e America Settentrionale causate (sembrerebbe!) dall’inquinamento prodotto dalla combustione degli oli industriali per il riscaldamento domestico!

Quando viene affrontato il tema dell’anidride carbonica, all’epoca della prima uscita del libro attestatasi a valori atmosferici attorno allo 0,03% , lo scienziato inglese si dimostra abbastanza scettico in merito alla teoria appena sviluppata secondo la quale il consumo dei combustibili fossili sarebbe destinato ad incrementare notevolmente negli anni seguenti la percentuale di CO2 in atmosfera con conseguenze sul surriscaldamento del pianeta. Ovvio che in’epoca in cui si guardava con preoccupazione al rischio glaciazione l’ipotesi di surriscaldamento fosse vista da alcuni quasi come auspicabile. Inoltre questo argomento, ammesso pure si rivelasse in futuro realistico, per Lovelock cozzava con la sua teoria secondo cui qualunque fenomeno di questo tipo poteva essere facilmente riequilibrato proprio dalla combinazione di tutti gli agenti che compongono il sistema Gaia. Analogo scetticismo viene manifestato nei confronti di un altro problema che inizia a manifestarsi alla fine degli anni ’70: il buco dell’ozono, causato dall’impiego di alcuni gas, i Clorofluorocarburi (CFC) usati all’epoca per il funzionamento di alcuni elettrodomestici (frigoriferi) e per le bombolette spray. Anche in questo caso secondo Lovelock il sistema Gaia sarebbe stato in grado col tempo di innescare dei meccanismi di riequilibrio. Significativo, a tal proposito, il fatto che col passare degli anni il nostro scienziato non solo avrebbe cambiato idea sull’effettiva pericolosità del fenomeno ma addirittura ne sarebbe divenuto uno dei principali artefici della battaglia che avrebbe condotto all’adozione di misure necessarie alla ricomposizione dello strato di ozono atmosferico.

Infine, lo stesso scetticismo Lovelock lo manifesta anche nei confronti della battaglia contro il famigerato pesticida DDT largamente usato negli anni passati dagli agricoltori ma ritenuto causa di gravi malattie. Ebbene anche in questo caso, pur manifestando la massima solidarietà con l’autrice di “Primavera Silenziosa”, Rachel Carson, la prima a denunciare i drammatici effetti dell’uso di questa sostanza a tal punto da paventare un futuro senza uccelli e per questo “silenzioso”, Lovelock si mantiene fiducioso riguardo alla possibilità che anche i danni prodotti da questo antiparassitario possano nel giro di breve tempo essere comunque riassorbiti.

Ciò che secondo il nostro scienziato inglese è fondamentale è che comunque l’uomo preservi alcune aree del pianeta da lui considerate vitali al mantenimento delle capacità di riequilibro da parte del sistema Terra. A riguardo di queste aree Lovelock appare, a mio parere, un po’ reticente. Parla in maniera generica delle zone dei tropici e poi si sofferma sugli estuari dei fiumi, sulle paludi e le piattaforme continentali. Questo patrimonio dovrà essere preservato dall’uomo- in fondo questa è l’unica conditio sine qua non che egli pone - se vorremo preservare la capacità del pianeta di ripristinare ogni volta l’equilibrio intaccato.

Sull’uomo Lovelock mostra di nutrire grandi speranze; secondo lui, l’uomo, rispetto ad altre specie viventi sulla Terra, non eccelle né nel volume del cervello, né nelle sue capacità di animale sociale, tantomeno per l’uso della parola o nell’uso di strumenti. Ciò in cui l’uomo eccelle è nella capacità di utilizzare tutti questi mezzi al contempo, ottimizzandone l’insieme e così facendo raccogliere, accumulare ed elaborare informazioni, e quindi usarle per manipolare l’ambiente con determinazione e in modo da anticipare i tempi.

L’ottimismo per il futuro tuttavia non offre certezze riguardo a quelli che potranno essere gli sviluppi. Secondo Lovelock “non siamo in grado di immaginare con precisione quello che avverrà” e aggiunge: “Non vi possono essere prescrizioni o insieme di regole per vivere su Gaia. Per ciascuna delle nostre diverse azioni vi sono solo conseguenze”.

L’errore più grande che l’uomo possa commettere è quello di ritenere di poter soggiogare la natura ai propri interessi. L’uomo è parte stessa della natura; egli può, anzi, deve sforzarsi di vivere con “intelligenza” in simbiosi con essa.

Lo scorso anno lo statunitense Peter Ward ha avanzato una nuova teoria in contrapposizione a quella di Lovelock definendola, non a caso, l’”Ipotesi Medea”. La tesi di fondo di Ward è che la Terra sia tutt’altro che benevola e per questo paragonandola alla malvagia Medea che nella mitologia greca giunse ad uccidere i suoi figli. Ma il testo di Ward è molto meno attendibile di quello di Lovelock in quanto si limita ad illustrare una sequela di disastri naturali, che nel corso della vita del pianeta hanno causato estinzioni di massa, senza il conforto di argomentazioni di carattere scientifico. A mio parere questo è troppo poco per supportare l’idea che la Terra sia una perfida matrigna.

Resta nonostante tutto il grande fascino invece dell’ipotesi “Gaia” di una Terra tutto sommato anche indulgente (come solo una madre talvolta sa essere!), che non a caso resiste da oltre trent’anni, anche se ogni tanto pure questa teoria mostra delle crepe. Dobbiamo ammettere infatti che le cose non sono sempre andate come Lovelock auspicava e che, quantomeno, di tanto in tanto, la Terra sembra perdere il pieno controllo di se (o la pazienza nei nostri confronti?) e qualche disastro naturale con conseguente estinzione di specie si verifica.

Michele Salvadori