domenica 3 aprile 2011

Amsterdam ecologica


Viaggiare, conoscere realtà diverse dalla nostra, oltre che piacevole, talvolta può essere anche istruttivo, utile ad ampliare il nostro modo di vedere le cose, apprendere diverse consuetudini di organizzazione di vita quotidiana e, perché no, ricevere utili suggerimenti per migliorarla.

E’ quanto accaduto a me e a mia moglie nel corso di un breve periodo di vacanza trascorso ad Amsterdam, dove, probabilmente sul piano del rispetto dell’ambiente, qualche punto in più sulla maggioranza delle città italiane certamente è stato raggiunto.

Partiamo dall’albergo che ci ha ospitato per tre notti: il Conscious Vondelpark Hotel , una struttura a “tre stelle” all’avanguardia in fatto di sostenibilità. Esso, grazie ad una recente e completa ristrutturazione, consuma in media il 20% in meno di energia rispetto ad un’analoga struttura standard. Le camere sono arredate con materiali eco-sostenibili provenienti da materie riciclate; tutto è ecologico, dal cotone-bio degli asciugamani e delle lenzuola ai materassi dei letti in fibra di cocco. 

Come potrete notare dalle immagini da me scattate, in ogni camera, a fianco degli oggetti di uso comune, è applicata una piccola didascalia che specifica la provenienza del materiale di fabbricazione del determinato oggetto (ad esempio un tavolo fabbricato con plastica riciclata dalle tazzine da caffè) o fornisce informazioni sul basso consumo energetico del tv a led, rispetto ad altre tecnologie, oppure suggerisce di non abusare nell’uso del sapone e dell’acqua quando ci facciamo la doccia, per non tacere dello spreco di energia elettrica. 


La colazione, a base di prodotti biologici e provenienti dal commercio equo-solidale – consumata su tavoli e sedie in materiale riciclato dove persino i porta sale e pepe sono interamente fabbricati in sughero - viene servita in piatti e bicchieri riutilizzabili e tovaglioli in carta 100% riciclata. Tutto è realizzato in prospettiva di un suo possibile recupero, riutilizzo o riassorbimento senza gravi conseguenze per l’ambiente. L’albergo offre inoltre un vasto assortimento di prodotti acquistabili: dai prodotti ecologici per l’igiene personale alle guide sul turismo sostenibile. Per finire, anche per la pulizia degli ambienti l’albergo utilizza solo prodotti totalmente biodegradabili.

Per maggiori informazioni consultate il sito all’indirizzo: http://www.museumsquarehotel.nl/about

Per la mobilità ad Amsterdam il mezzo usato per eccellenza è la bicicletta. Anche io e mia moglie Michela ci siamo ben volentieri adattati a questa abitudine (che del resto seguiamo anche nella nostra città) noleggiando due biciclette che abbiamo utilizzato per tutti gli spostamenti.

Michela e le nostre bici arancio a noleggio
Le piste ciclabili sono ovunque e la bicicletta è il mezzo abituale per andare al lavoro, fare la spesa, accompagnare i figli a scuola su tricicli dotati di grosse culle che possono ospitare anche tre bimbi alla volta! Tutte le principali arterie della città sono analogamente strutturate: due corsie centrali per il tram (secondo mezzo di trasporto più utilizzato), al fianco delle quali scorrono due corsie, una per senso di marcia destinate agli automezzi, e poi due corsie (ancora una per lato) destinate a biciclette e scooter. Tra le corsie per il tram e quelle per le auto non esistono cordoli e raramente anche tra quelle per le auto e quelle per le biciclette. Semplicemente ognuno rispetta il proprio settore! Ricordo in proposito le lunghe ed estenuanti discussioni sull’altezza in centimetri che avrebbero dovuto avere i cordoli separatori tra corsia tram e corsia auto a cui ho dovuto assistere presso l’Assessorato all’Ambiente della mia città, quando abbiamo partecipato alle riunioni preliminari per la realizzazione della nostra prima linea tranviaria!

Il parcheggio biciclette della Central Station di Amsterdam

Per dare un’idea di cosa rappresenti la bicicletta in questa città accludo di fianco la foto del parcheggio delle biciclette presso la Stazione ferroviaria centrale di Amsterdam. Questo capita in Olanda, mentre a Firenze i titolari dei lussuosi negozi di Via Tornabuoni si oppongono alla pista ciclabile in quanto impedirebbe l’ampliamento del marciapiede di fronte alle loro vetrine …

La raccolta dei rifiuti in città viene realizzata con il sistema porta a porta “spinto”. Il pomeriggio, dalle ore 18,00 in poi, è possibile depositare sui marciapiedi di fronte alla propria abitazione o attività commerciale tutti i rifiuti prodotti durante la giornata, sia pure separati nelle quattro principali tipologie: plastica e vetro, carta e cartone, organico e indifferenziato.

Il Porta a Porta ad Amsterdam

Di lì ad un paio d’ore i mezzi della locale azienda per i rifiuti passeranno a ritirarli. In più, a beneficio dei visitatori, anche lungo i bellissimi canali - una delle indubbie principali attrattive del luogo - si trovano i cassonetti a scomparsa, anche in questo caso distinti nelle varie categorie di rifiuto. A questo proposito, e rammentando l’annosa polemica che da tempo ci affligge sull’applicazione della tassa di soggiorno di uno-due euro (!) da far pagare ai turisti che visitano le nostre città d’arte, faccio presente che ad Amsterdam l’analoga tassa comunale, che anche io e mia moglie abbiano dovuto subito pagare appena giunti in albergo è pari al 5% dell’ammontare complessivo dell’importo dovuto all’albergo. Nei giorni della nostra permanenza non ho visto nessun turista strapparsi le vesti per questo!

Ed è evidente che in un ambiente più attento alle tematiche della sostenibilità sia più facile che si creino i presupposti per l’ideazione di prodotti maggiormente rispettosi dell’ambiente. E’ quanto ha fatto Christiaan Maats che si è inventato una scarpa totalmente biodegradabile e addirittura compostabile! La notizia era apparsa sui quotidiani italiani solo su brevissimi trafiletti. Ho deciso di andare a verificarla di persona. E così, muniti di un semplice indirizzo trovato su internet, io e mia moglie Michela ci siamo divertiti in questa piccola caccia al tesoro per le vie di Amsterdam che ci ha condotti con un po’ di fortuna alla sede della OAT Shoes, questo il nome dell’azienda fondata da Maats, dove Christiaan e la sua collaboratrice Marielle Van Leewen sono stati: prima sorpresi che qualcuno dall’Italia fosse interessato al loro prodotto, e poi felici di ospitarci e di mostrarci quanto stanno realizzando.

Christiaan e Marielle con
le loro creazioni

Le scarpe della Virgin Collection della Oat sono interamente biodegradabili ed hanno vinto un premio come prodotto ecocompatibile all’Amsterdam Fashion Week. Christiaan ci ha spiegato che dopo un lavoro durato più di due anni e per la cui progettazione è ricorso all’aiuto di alcuni maestri calzaturieri italiani delle Marche, sta realizzando una scarpa le cui componenti sono canapa, sughero, cotone bio, plastiche biodegradabili e sbiancanti non clorurati. La scarpa verrà realizzata senza l’ausilio di colle ed in più nella linguetta superiore conterrà i semi di una pianta da fiore che una volta dismessa le consentiranno di … germogliare! 

L’avvio della commercializzazione di queste scarpe prodotte in Bulgaria, avverrà proprio in questi giorni. Inizialmente esse saranno però distribuite solo in Olanda e Belgio. In alternativa sarà però presto possibile acquistarle via internet. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 130,00 euro. Anche in questo caso per maggiori approfondimenti consiglio di visitare il sito della OAT all’indirizzo: http://www.oatshoes.com

Uno dei modelli delle scarpe
 compostabili
Un modo diverso di vivere, insomma, è possibile. Come dimostra l’esperienza di Amsterdam, in alcuni luoghi del nostro pianeta il periodo di transizione auspicato da Tim Jackson nel suo libro si sta in concreto realizzando.

Amsterdam non sarà forse una città perfetta, del resto il tempo trascorsovi è troppo poco per conoscerla in maniera approfondita, però qualcosa lì, come altrove per fortuna, si sta facendo nell’ottica del rispetto dell’ambiente. E certo visitare il Museo Van Gogh o ammirare le tele di Rembrandt e di Vermeer al Rijksmuseum, navigare sui canali tra le case galleggianti, commuoversi visitando il Museo di Anna Frank e poi tornare ad esaltarsi al NEMO di Renzo Piano o nelle sale dello Stedelijk Museum, e fare tutto questo in un contesto attento all’ambiente, è stata davvero una bellissima esperienza.


Michela assieme a Marielle e
Christiaan nella sede della OAT

Certo, osservando per la prima volta le etichette affisse sulle pareti della mia camera d’albergo che suggerivano comportamenti più sostenibili, mi sono venute in mente le parole dei vecchi monaci trappisti che ogni ora si scambiavano: “Fratello, ricordati che devi morire!” Oggi la cosa ci fa sorridere così come del resto ci farebbe sorridere entrare in un centro commerciale e vedere sulle pareti la scritta: “Si ricorda ai gentili clienti che non si possono rubare i prodotti in vendita”.

Certe conclusioni, certi comportamenti per fortuna oggi sono scontati ma un tempo forse lo erano meno. L’uomo ha bisogno di tempo per adeguarsi ai cambiamenti, per digerirli fino in fondo. Purtroppo talvolta esso regredisce anziché progredire. Fino al secondo dopoguerra i rifiuti praticamente non esistevano. I nostri nonni in casa erano abituati a recuperare tutto, perfino i pezzi di giornale da utilizzare al posto della carta igienica, quando la carta igienica ancora non era stata inventata; ricordo che perfino la carta giallina in cui il macellaio sotto casa (ce ne sono sempre meno …!) avvolgeva la braciola acquistata da nostra madre, non veniva gettata via ma recuperata.

Ben vengano allora gli avvisi sugli stipiti delle porte e di fianco alle prese della luce, ben vengano i premi assegnati alle scarpe biodegradabili se servono a ricordarci quello che purtroppo abbiamo dimenticato!

Michele Salvadori


sabato 26 marzo 2011

Prosperità senza crescita di Tim Jackson

Come si esce dalla crisi economica e finanziaria che ha colpito le economie occidentali negli ultimi anni? In genere la risposta più comune che ci sentiamo dare è: potenziando la crescita!

Nell’ottobre del 2008, in piena crisi, il sindaco di Londra, Boris Johnson, inaugurando un enorme centro commerciale, invitava la gente ad uscire ed andare a spendere. Del resto lo stesso Presidente USA, George W. Bush all’indomani dell’ 11 settembre suggeriva agli americani di “uscire a fare spese”. E, se non ricordo male, lo stesso suggerimento era solito darlo ancora nel Natale di 2 anni fa il nostro Presidente del Consiglio, come rimedio alla crisi economica: “Italiani, spendete e non risparmiate!”

Ma siamo proprio sicuri che questa sia la soluzione giusta? Come possiamo conciliare la crescita costante dei commerci, il continuo aumento della popolazione, il costante e progressivo consumo delle risorse del pianeta in un ambiente comunque limitato e “finito”?

Tim Jackson, professore di Sviluppo Sostenibile all’Università del Surrey (Inghilterra), prova a fornire una risposta adeguata a questa domanda con la sua pubblicazione dal titolo: “Prosperità senza crescita”- Economia per il pianeta reale- (Edizioni Ambiente, pp. 300, €. 24,00).

"In un mondo in cui 9 miliardi di persone (lo si prevede per il 2050 ndr) volessero raggiungere il livello di benessere atteso per le nazioni dell’OCSE, ci sarebbe bisogno di un’economia pari a 15 volte quella attuale – sostiene Jackson – ma nessun sottosistema di un sistema finito può crescere all’infinito: è una legge fisica." Pertanto dobbiamo, per forza di cose, mettere in dubbio che la crescita sia davvero la soluzione. L’idea di un’economia che non cresce è un’eresia per gli economisti; ma, parimenti, anche l’idea di un’economia in costante crescita è un anatema per gli ecologisti! Allora, che fare?

Come ormai ci sentiamo rispondere da più parti, la crisi economica ci offre un’opportunità unica di investire in questo necessario cambiamento. Si tratta cioè di trovare una strategia nuova che consenta all’uomo di garantirsi un certo benessere entro però quei limiti ecologici richiestigli dal fatto di vivere in un ambiente delimitato ed oltremodo stressato dallo sciagurato sfruttamento ad opera dell’uomo.

Nella prima parte del suo libro Jackson cerca di spiegare i mali dell’economia capitalista partendo proprio dal suo sistema fondato sul meccanismo del “debito”, cercando di spiegare le differenze esistenti tra debito privato (quantità di denaro dovuta dai cittadini), debito pubblico (quantità di denaro dovuta dal governo al settore privato) e debito estero (insieme di debiti che governo, imprese e famiglie hanno fuori dal proprio paese). Il nostro sistema economico, di fatto, incoraggia i suoi attori ad indebitarsi; pensiamo ad esempio ai meccanismi pubblicitari che tendono a creare bisogni fino a quel momento inesistenti e spesso superflui, al desiderio di possedere un oggetto in quanto esso ci qualifica come appartenenti ad un determinato ceto sociale, al sistema degli incentivi ideati per promuovere le vendite nei negozi. Il punto è che quando questa strategia diviene insostenibile, come accaduto nel 2008, ampie fasce di popolazione rischiano di trovarsi a fronteggiare enormi difficoltà per molto tempo.

La cultura del “prendi in prestito e spendi” non favorisce la prosperità, semmai la mina. Ma quella che Jackson definisce “l’età dell’incoscienza”, appunto fondata sulla propalazione all’infinito del sistema debitorio, non è fenomeno isolato di determinati gruppi di persone. Si tratta di una prassi divenuta col tempo consuetudine e adottata a sistema definitivo all’unico scopo di poter protrarre il più a lungo possibile il meccanismo della crescita economica. Una bella frase del Cardinal Dionigi Tettamanzi riussume perfettamente il quadro: "L'uomo dovrebbe consumare per vivere, non vivere per consumare".

La vicenda del crac Parmalat così ben delineata, nella sua tragicità, nel recente film di Andrea Molaioli ,“Il Gioiellino” è a mio parere emblematica dei nostri meccanismi comportamentali. Una società tenta di risolvere il proprio indebitamento facendo ulteriori debiti, a cui fanno seguito altre richieste di prestito alle banche che provocano ulteriori debiti fino a quando, inevitabilmente, giunge il momento in cui non sarà più possibile andare avanti.

Lo stesso discorso - spiega molto bene Tim Jackson - lo possiamo fare trasferendo il meccanismo d’indebitamento dal piano economico e finanziario a quello ambientale. Nei confronti della natura e delle sue risorse l’uomo occidentale si sta comportando esattamente allo stesso modo. In questo caso un esempio illuminante è rappresentato dal calcolo dell’Impronta Ecologica che mostra in maniera lampante come l’uomo stia da tempo consumando più risorse di quante la natura possa mettergli a disposizione per il tempo fisiologicamente necessario a ricostituirle con il risultato che la prosperità di oggi è di fatto sottratta alla prosperità delle generazioni future.

L’autore di questo testo si propone di ridefinire il nostro concetto di prosperità che dovrà necessariamente basarsi su valori diversi da quelli attuali, adottando una serie di nuovi parametri. Dovremo innanzitutto rifiutare quella logica dell’abbondanza da sempre legata alla nostra idea di prosperità, indirizzandoci invece nell’uso dei beni materiali ad un maggiore senso di consapevolezza, responsabilità e condivisione.

Vi è una considerazione su tutte che credo meriti attenzione: se alcuni diritti fondamentali quali quello alla salute, all’istruzione ed alla speranza di vita risultassero strettamente dipendenti dal livello di reddito crescente, allora per l’uomo sarebbe pressoché impossibile raggiungere la felicità in assenza di crescita economica. Ma questo non è vero; l’uomo, secondo Jackson, potrà comunque raggiungere lo stadio di benessere a patto che cambi la propria mentalità. In questo ambito viene introdotto il concetto di “decoupling” ovvero del fare di più con meno: più attività economica con meno danni ambientali, più beni e servizi con meno consumi ed emissioni, in altre parole, con maggiore efficienza. Ma al contempo Jakcson ci mette in guardia dalle facili illusioni: non è pensabile risolvere tutti i nostri problemi solo attraverso il miglioramento della nostra efficienza.
Se ad esempio decido di cambiare tutte le lampadine di casa e nell’arco di un anno risparmio mille euro di consumo di elettricità e poi uso il denaro risparmiato per acquistare un biglietto aereo per i Caraibi, sicuramente trascorrerò una settimana in un isola da sogno, però avrò vanificato in poche ore tutto il risparmio, in termini di emissioni, ottenuto!
In sostanza, l’efficienza energetica se da un lato è una strategia indispensabile a promuovere il cambiamento, dall’altro potrebbe contenere un risvolto negativo in quanto potenzialmente essa può incentivare a sua volta la crescita economica in settori paralleli a quello dove si potrà ottenere una riduzione dei consumi. La sola efficienza - sostiene dunque Jackson - non potrà mai permetterci di raggiungere la sostenibilità.

Un' altra delle strade suggerite dall'autore è quella di mutuare la strategia avviata negli anni’30 del secolo scorso dal presidente americano F. D. Roosevelt e che non a caso è definita “Green New Deal”: il settore pubblico dovrà investire in nuove tecnologie che possano apportare un deciso cambiamento in termini di sicurezza energetica, infrastrutture a basso impatto ambientale e salvaguardia della natura che a loro volta potrebbero liberare risorse per i consumi e gli investimenti delle famiglie attraverso la riduzione dei costi dell’energia. La riduzione della nostra dipendenza dai combustibili fossili (con quello che ne conseguirebbe anche in termini geopolitici) potrà a sua volta creare invece maggiore occupazione nel settore della green economy, ridurre la produzione di emissioni climalteranti, o in conclusione migliorare la qualità dell’ambiente nel quale viviamo.

In particolare, l’autore si sofferma ad analizzare il sistema dei cosiddetti “incentivi verdi”, a suo parere essenziali per il lancio definitivo di queste strategie, e cita come esempio particolarmente virtuoso quello della Corea del Sud, che negli ultimi anni ha stanziato addirittura l’80% del proprio pacchetto globale d’incentivi destinandolo ad obiettivi ambientali. Si stima che in questo modo essa creerà nel giro dei prossimi quattro anni ben 960.000 nuovi posti di lavoro.

Ma questa strategia risulta ancora lontana dall’essere adottata in gran parte del resto dei paesi del pianeta. L’Italia, ad esempio, nel 2009 ha destinato appena l’ 1,3 dei suoi incentivi alla componente “verde”, a fronte del 37,8 % della Cina, del 58,7% dell’Unione Europea e del 21,2% della Francia. Gli Stati Uniti si sono per ora fermati al 9,8%.
Investire nella costruzione di nuove strade, per esempio, può in effetti garantire nell’immediato la conservazione di posti di lavoro e ridare slancio all’economia. Ma se l’incentivo viene usato per finanziare interventi ad alto impatto ambientale, in futuro potrebbe essere impossibile riportare le emissioni al di sotto dei livelli che oggi inseguiamo.

Provando a sintetizzare l’elenco delle proposte - per le quali comunque rimando come sempre alla lettura del volume - un’altra delle soluzioni avanzate dallo studioso inglese è quella della riduzione dell’orario di lavoro, secondo la ormai vecchia formula “lavorare meno, lavorare tutti”, questo anche perché secondo Jackson accorciare la settimana lavorativa consentirebbe di avere a disposizione maggior tempo libero da utilizzare per noi stessi, la famiglia, i nostri passatempi, ma – perché no – anche per l’impegno sociale come le attività di volontariato.

Altra strategia auspicata è poi quella del potenziamento della ricerca tecnologica – ovvio - in direzione della sostenibilità. Gli investimenti, secondo Jackson, dovranno essere principalmente dirottati sulla produttività delle risorse, le fonti energetiche rinnovabili, le tecnologie “pulite”, i business “verdi”, l’adattamento climatico e la valorizzazione dell’ecosistema.

Ma – ci ribadisce più volte nelle sue pagine l’autore - la strategia principale dovrà essere quella di combattere drasticamente il “consumismo” considerato da Jackson il vero cancro dell’attuale sistema. Dovremo cioè contribuire alla creazione di un nuovo “edonismo alternativo” individuando fonti di soddisfazione che esulino dal mercato tradizionale. I valori materialistici come la fama, l’immagine e il successo finanziario si oppongono a livello psicologico a valori intrinseci come l’accettazione di sé, l’appartenenza ad un gruppo sociale o il sentire di far parte di una comunità. Ma proprio questi ultimi sono gli ingredienti della nuova prosperità. Le indagini in questo settore dimostrano del resto come le persone con valori intrinseci più elevati abbiano una vita più soddisfacente e al contempo dimostrano livelli di responsabilità ambientale più alti rispetto a quelle con valori materialistici. Ma per favorire questo cambiamento strutturale sarà altrettanto indispensabile il ruolo della politica, fino ad oggi più sensibile a soddisfare la pancia dei propri elettori in cambio del loro assenso, piuttosto che a rivestire un ruolo guida verso un cambiamento virtuoso di tutta la società.

L’ultimo capitolo del libro è dedicato a quello che dovrà essere un inevitabile periodo di transizione dall’attuale sistema consumistico alla nuova era di prosperità. Stabilire i limiti sull’utilizzo delle risorse e fare in modo che le attività economiche siano molto più consapevoli, fissare tetti massimi di utilizzo delle risorse e per le emissioni prodotte, saranno i primi passi imprescindibili. A tal proposito Jackson elogia il lavoro svolto nel corso degli anni, e già a partire dal 1992, da parte degli Amici della Terra nello sviluppo del concetto di "spazio ambientale" definito come quantitativo di energia, di risorse non rinnovabili, di territorio, acqua, legname e di capacità di assorbire inquinamento che può essere utilizzato a livello mondiale o regionale pro capite senza determinare danni ambientali. Proprio da questa valutazione potrà derivare l’elaborazione di politiche adeguate ad assicurare lo sviluppo sostenibile ed un’equa condivisione.

L’investimento ecologico dovrà essere indirizzato invece alla riqualificazione edilizia e all’implementazione di sistemi a basso impatto e basso consumo energetico; sviluppare tecnologie basate su fonti rinnovabili; riprogettare le reti di distribuzione dei servizi di pubblica utilità; potenziare le infrastrutture per il trasporto pubblico; ampliare le aree pubbliche quali zone pedonali, spazi verdi, biblioteche; salvaguardare e valorizzare gli ecosistemi.

E’ evidente che raggiungere questi obiettivi sarà una sfida enorme, siamo tuttavia con le spalle al muro e dunque non abbiamo poi molte altre scelte. La nostra unica possibilità è lavorare per questo cambiamento, credendoci fino in fondo.

“L’animale umano è una bestia condannata a morire che, se ha mezzi, compra, compra e compra. E la ragione per cui compra tutto quello che può è l’assurda speranza che fra le molte cose ci sia la vita eterna”. (Tennessee Williams)

Michele Salvadori

domenica 6 marzo 2011

"Come si esce dalla società dei consumi" di Serge Latouche

“Perché dovrei preoccuparmi dei posteri? I posteri si sono mai preoccupati di me?” Il problema del sovracconsumo delle nostre risorse potremmo in effetti anche liquidarlo con questa celebre battuta di Groucho Marx. Il punto, invece serissimo, è che parte di noi oggi sta prendendo alla lettera questa frase.

Eppure già Plinio il Vecchio vaticinava: “Le cose che ci rovinano e ci conducono agli inferi sono quelle che essa (la Terra) ha nascosto nel suo seno, cose che non si generano in un momento… Quanto innocente, quanto felice, anzi perfino raffinata sarebbe la nostra vita, se non altrove volgesse le sue brame, ma solo a ciò che si trova sulla superficie terrestre!”

Il nuovo libro di Serge Latouche - ormai considerato il guru della filosofia della decrescita - dal titolo “Come si esce dalla società dei consumi” (Ediz. Bollati-Boringhieri pp. 205, €. 16,00), ribadisce e sintetizza quanto espresso nelle sue precedenti pubblicazioni sul tema (La scommessa della decrescita e Breve trattato sulla decrescita serena), sia rispondendo alle critiche nel frattempo giuntegli anche da una parte del mondo ambientalista, sia ripercorrendo a ritroso il pensiero dei principali studiosi delle teorie sulla sostenibilità dagli anni ’60 del secolo scorso ad oggi.

Latouche parte da un assunto ormai noto: la società dei consumi di massa è arrivata ad un vicolo cieco. E’ una società che ha la sua base – anzi la sua essenza – nella crescita senza limiti, mentre i dati fisici, geologici e biologici le impediscono di proseguire su quella strada, data la finitezza del pianeta. Secondo Latouche è ormai troppo tardi per porre rimedio ai nostri comportamenti. “Anche se riducessimo la nostra impronta ecologica ad un livello sostenibile, avremmo comunque un innalzamento della temperatura di due gradi entro la fine del secolo. Ormai il problema non è quello di evitare la catastrofe, ma solo di limitarla, e soprattutto di domandarsi come gestirla.”

In questo testo, scritto con un linguaggio accessibile e dal tono divulgativo, l’autore cerca intanto di ricostruire le varie fasi che hanno portato allo sviluppo del consumismo partendo dal lontano 1750 con la nascita del capitalismo occidentale e dell’economia politica. Dal saggio “Ricchezza delle nazioni” in cui Adam Smith professa che l’arricchimento degli uni finirà per avere ricadute positive su tutti, per arrivare agli anni ’50 del ‘900 con la nascita della società dei consumi, quando il sistema libererà tutto il proprio potenziale creativo e distruttivo attraverso i suoi tre principali pilastri: la pubblicità, che crea instancabilmente il desiderio di consumare; il credito, che fornisce i mezzi per consumare anche a chi non ha denaro; l’obsolescenza programmata, che assicura il rinnovamento obbligato della domanda.

Il modello previsto dal Club di Roma nel famoso rapporto "I limiti dello sviluppo" (1972!) e purtroppo rivelatosi fino ad oggi assai attendibile, colloca la fine della società consumistica tra il 2030 ed il 2070. Il sogno a quel punto - a causa della continua crescita di distruzione del nostro ecosistema - si trasformerà in incubo.

Cosa fare, allora? Come uscirne? Latouche - per rispondere alle principali critiche rivoltegli, che accusano la teoria sulla decrescita di essere un’utopia difficilmente realizzabile in quanto il mondo non può essere fermato e ricondotto all’era post-industriale e che inoltre egli contraddice la stessa filosofia dello sviluppo sostenibile in quanto anche quest’ultimo comunque prevede una crescita vigorosa anche se ecologica - afferma che innanzitutto il suo vuole essere uno slogan provocatorio che evidenzi la necessità di praticare una rottura con una società il cui obiettivo è la crescita per la crescita. “Rompere con la società della crescita - afferma Latouche - non vuol dire sostenere un’altra crescita e neppure un’altra economia, significa uscire dalla crescita e dallo sviluppo, e dunque dall’economia, cioè dall’imperialismo dell’economia, per ritrovare il sociale e il politico.” Per farlo dobbiamo perseguire due nuovi obiettivi: la decolonizzazione dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo possibile.

La cosiddetta “crescita verde” a suo parere è un ossimoro: “Certo, con migliori carburanti si brucia meno petrolio e con lampade a basso consumo si consuma meno energia, ma se si fanno girare i motori per più tempo e si accendono sempre più lampade, il problema non è risolto. Nel migliore dei casi allontaneremo il momento del crollo.” In più, mi permetto di aggiungere, se sempre un maggior numero di persone avrà nei prossimi anni accesso a quelle tecnologie che fino a pochi anni or sono erano di esclusiva pertinenza dei popoli occidentali è indubbio che non potremo andare ancora molto lontani. Se i soli cinesi, (per tacere di indiani e brasiliani), la cui popolazione ammonta ad un miliardo e trecento milioni di persone ambiscono, per altro giustamente, allo stesso tenore di vita di noi occidentali, ma le risorse del pianeta sono sempre le stesse, la fetta di torta da spartire sarà inevitabilmente sempre più piccola.

La soluzione proposta è naturalmente molto articolata e di difficile sintesi (vi rimando alla lettura del libro). Latouche richiama il pensiero di tutti i principali teorici della società del dopo sviluppo, da Geogescu-Roegen, a Illich, a Castoriadis, a Gorz e sostiene come la nostra crisi sia fondamentalmente culturale e di civiltà. Egli si rende conto di quanto sia difficile per noi prendere coscienza del fatto che l’economia è una religione dalla quale dobbiamo per forza di cose affrancarci e ripropone la sua ipotesi societaria ispirata ai principi di sobrietà delle cosiddette “8 R”: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare.

Consapevole dell’impossibilità di realizzare questo profondo processo di trasformazione in tempi brevi, Latouche propone una sorta di società di transizione che dovrà intanto indirizzarsi sui seguenti 10 punti programmatici:

1. Ristabilire un’impronta ecologica sostenibile
2. Ridurre i trasporti internalizzando i costi attraverso ecotasse adeguate

3. Rilocalizzare le attività

4. Ristabilire l’agricoltura contadina

5. Ridistribuire i profitti ricavati dall’aumento di produttività per ridurre il tempo di lavoro e creare occupazione

6. Rilanciare la produzione dei beni relazionali

7. Ridurre gli sprechi di energia di un fattore 4

8. Ridurre sostanzialmente lo spazio pubblicitario

9. Riorientare la ricerca tecnico-scientifica

10. Riappropriarsi del denaro

Tra le soluzioni proposte vi è quella dell’abbandono della moneta unica a vantaggio di singole “monete regionali” (non necessariamente convertibili l’una con l’altra), adottabili in una fascia di popolazione compresa tra le diecimila e il milione di persone che realizzi un buon equilibrio tra efficienza e resilienza (capacità di rigenerarsi) e che potrebbe concretamente contribuire alla nascita di tante bio o eco-regioni. Pensiamo ad esempio all’ importanza strategica che avrebbero anche la sola distribuzione ed il consumo di prodotti a Km. zero ed esclusivamente di carattere stagionale. Sarebbe poi davvero un grande sacrificio per noi rinunciare all’acquisto delle ananas del Costa Rica?

E’ evidente però – Latouche ne è consapevole - che gli interessi in gioco sono enormi e che la sua proposta è destinata ad ottenere scarsa approvazione, almeno per adesso. Si tratta di proporre un modello culturale totalmente nuovo. La società della decrescita dovrà ispirarsi al contrario di quella attuale allo spirito del dono. Si dovrà tentare di sostituire alla mentalità predatrice nei rapporti con la natura, i valori dell’altruismo, della reciprocità, della convivialità e del rispetto dell’ambiente. Secondo la bella metafora di Kenneth Boulding e ripresa da Andrea Segrè nel suo “Lezioni di ecostile” (Ediz. B. Mondadori) - altro interessante testo che mi permetto di suggerire – dovremmo sostituire all’economia del cow-boy, fondata appunto sullo sfruttamento illimitato delle risorse naturali, l’economia del “cosmonauta”, con la Terra concepita come un’unica grande navicella spaziale provvista di riserve limitate, dove l’uomo deve trovare il suo posto come elemento di un sistema ecologico complesso.

Un intero capitolo dell’opera, Serge Latouche lo dedica a quello che egli considera uno dei suoi principali maestri ed ispiratori, Ivan Illich. Secondo Illich la scomparsa della società della crescita non è necessariamente una cattiva notizia. Essendo costretto a vivere diversamente, l’uomo potrà vivere finalmente meglio lavorando e consumando meno secondo la sua teoria della “sussistenza moderna”. In particolare il testo si sofferma ad analizzare il concetto espresso da Illich e definito con il termine di “decolonizzazione dell’immaginario”, uno dei principi cardine - per Latouche - della nuova mentalità, che dovrà contraddistinguere la nuova economia della decrescita. L’uomo dovrà riconcettualizzare, ridefinire, ridimensionare, nell’ottica della decrescita, anche i propri concetti di ricchezza e di povertà. Ad esempio lo sfruttamento delle fonti di energia fossili permette una straordinaria svalorizzazione del lavoro umano con il risultato di una sovrabbondanza artificiale facilmente riscontrabile nei nostri ipermercati. Una delle conseguenze di tutto questo è la cosiddetta banalizzazione delle “meraviglie”. Pensiamo all’utilizzo ormai inflazionato in campo pubblicitario dei superlativi assoluti (altissima, purissima, ecc.) e degli aggettivi quali straordinario, eccezionale, strepitoso, ecc. Quante volte ci capita di leggere sulla locandina che pubblicizza una pellicola appena uscita al cinema: ecco il film dell’anno! Ma quanti film dell’anno ci sono propinati nell’arco di un solo anno… li avete mai contati?!

Latouche riprende poi, e lo fa proprio, anche un altro aspetto del pensiero di Illich, quello di dura critica alla scuola come istituzione. A suo parere il modello educativo proposto oggi è responsabile dell’eliminazione nelle menti dei giovani di quelle difese immunitarie necessarie a resistere al sistema economico. “La maggioranza delle persone – scrive Illich – impara nella scuola non soltanto l’accettazione del proprio destino, ma anche il servilismo”. A riguardo, e a distanza di oltre un ventennio dalle conclusioni di Illich, il bel saggio-provocazione di Paola Mastrocola, “Togliamo il disturbo” (Ediz. Guanda) ne è purtroppo una conferma. Dobbiamo dunque avviare un processo di disintossicazione che deve necessariamente partire proprio dalla scuola. Secondo uno studio realizzato in Belgio nel 2008, su tremila allievi della scuola secondaria (licei, istituti tecnici e professionali) solo il 45% sa cos’è una energia rinnovabile; quasi nove allievi su dieci ignorano le cause del riscaldamento climatico; più del 60% confonde l’effetto serra con il buco nello strato di ozono; non parliamo poi del concetto di impronta ecologica, pressoché ignorato dalla maggioranza degli studenti… Le nuove generazioni si trovano culturalmente disarmate. Su questo punto voglio però in parte dissentire dal pensiero dell'autore. Per ragioni professionali negli ultimi anni ho avuto il piacere e la fortuna di collaborare con un certo numero d'insegnanti di scuola di ogni ordine e grado. Ho conosciuto persone attente e sensibili a queste tematiche che si sforzano quotidianamente di svilupparle coinvolgendo gli allievi. Purtroppo però costoro rappresentano ancora una minoranza.
Non parliamo poi dei genitori. Secondo un sondaggio Gallup del 2009 il 41% degli statunitensi pensa che l’allarme sul riscaldamento climatico sia esagerato dai media. Nel 2008 la percentuale sullo stesso campione di cittadini era del 35%... Sarebbe ingiusto addossare alla sola istituzione scuola, sostiene dunque Latouche, la responsabilità di questo stato delle cose. Oggi i genitori hanno abbandonato, per ragioni diverse, il loro ruolo di educatori, delegandolo alla scuola e più ancora alla televisione: il sistema pubblicitario occupa lo spazio abbandonato dai genitori e che la scuola non riesce a riempire. La scuola oggi deve cessare di trasmettere la religione della crescita e formare invece cittadini in grado di pensare con la propria testa.

Le generazioni future dovranno creare una società autonoma dai vecchi schemi. Illich propone quello da lui definito come “tecnodigiuno ascetico” : “Proviamo a rinunciare a qualcosa, non per abbellire la nostra vita ma per ricordare a noi stessi quanto siamo attaccati a questo mondo moderno”.

Per uscire dalla società dei consumi e realizzare quella della decrescita è indispensabile uscire dal suo regime di “cretinizzazione civica” , denunciare l’aggressione pubblicitaria e combattere quello che Cornelius Castoriadis, altro pensatore caro a Latouche, chiama “l’onanismo consumistico e televisivo”.

In buona sostanza Latouche auspica una rivoluzione culturale che porti a quei mutamenti indispensabili per la sopravvivenza della nostra specie sul pianeta. Anch’egli giudica la crisi economica come un buon presupposto se faciliterà l’uscita dalla religione della crescita ed in particolare - ed a dimostrazione che forse il progetto che egli propone è meno utopistico di quanto possa apparire ad un primo approccio - indica come modello di società da seguire quello delle cosiddette Città di Transizione, nato in Irlanda e che si sta diffondendo nel Regno Unito, come forma di costruzione che più si avvicina a una società urbana improntata alla filosofia della decrescita. Queste città puntano in primo luogo all’autosufficienza energetica in previsione della fine delle fonti di energia fossile.

Non so quanto la sua proposta sia in concreto realizzabile, ciò nonostante è indubbio che le teorie di Latouche meritino rispetto ed attenzione soprattutto perché almeno costituiscono un punto di partenza, una base utile ad avviare il dibattito sulla costruzione di nuovi modelli societari, nuovi stili di vita ai quali la specie umana dovrà prima o poi obbligatoriamente adattarsi.

Michele Salvadori

lunedì 6 dicembre 2010

L' Ecopragmatismo di Stewart Brand

Capita ormai con una certa frequenza di assistere a dichiarazioni pro-nucleare da parte di personalità autorevoli del mondo della cultura scientifica ed in alcuni casi, addirittura, a manifesti cambiamenti di rotta da parte di qualcuno che, fino a poco tempo fa, se ne dichiarava un acerrimo nemico.

In Italia ha suscitato grande clamore la scelta a favore di questa tecnologia da parte del Professor Umberto Veronesi, e sono proprio di ieri le dichiarazioni di James Hansen, astrofisico e docente di Scienze della Terra alla Columbia University, che ha ribadito di sostenere il nucleare in quanto, ad oggi, non siamo in possesso di tecnologie alternative migliori per attenuare il cambiamento climatico in atto causato, anche, dall’uso dei combustibili fossili.

L’occasione di affrontare questo tema mi è venuta dalla lettura di un testo uscito da poco in Italia dal titolo: “Una cura per la Terra – Manifesto di un ecopragmatista” (Codice Edizioni, pp.350, €. 23,00) di Stewart Brand, tra i fondatori del movimento ambientalista americano e che, da convinto oppositore del nucleare, cerca di spiegare nel suo testo perché ha cambiato idea a riguardo.
In USA il libro ha suscitato grandi polemiche anche perché l’autore non si limita solo ad appoggiare il nucleare ma parla anche a favore degli organismi geneticamente modificati (OGM).
E’ notoria la posizione degli Amici della Terra contro queste due tecnologie e dunque perché affrontare una simile lettura?
Sono profondamente convinto che sia importante provare ad ascoltare chi ha idee diverse dalle nostre: ciò può avere una doppia utilità: rafforzare le nostre convinzioni migliorandole oppure al contrario ravvederci finchè siamo in tempo a farlo.
E’ con questo spirito che ho affrontato una lettura in parte faticosa, a volte eccessivamente tecnica per le mie conoscenze, ma talvolta davvero stimolante e costruttiva.

Brand non è un ciarlatano e, consapevole delle critiche che potranno piovergli addosso a seguito delle proprie tesi, cerca di prevenirle smontando pezzo per pezzo e con assoluta rigorosità scientifica tutte le potenziali argomentazioni sulle tematiche che affronta.
Egli parte da un presupposto condivisibile ed ormai indiscutibile: il cambiamento climatico sulla Terra è in atto e l’uomo deve trovare delle soluzioni al problema, non per risolverlo, operazione ormai impossibile, ma quanto meno per attenuarlo.
Brand fa anche un’altra affermazione che condivido: il problema esiste per la specie umana; la Terra in ogni caso se la caverà. La questione dunque non è salvare il pianeta, ma preservare le attuali specie viventi.

Gli studi geologici dimostrano che 55 milioni di anni fa l’attuale Mar Glaciale Artico aveva una temperatura media di 23 °C e che l’intero pianeta probabilmente era caratterizzato da un clima tropicale. Il rischio per noi è quello di tornare a quello stato di cose.
Le strategie suggeriteci per affrontare il cambiamento climatico sono tre.
Mitigazione: attraverso la riduzione delle emissioni ad effetto serra.
Adattamento: attraverso lo spostamento delle popolazioni costiere verso nord, lo sviluppo di colture resistenti alla siccità e prepararsi ad accogliere masse di rifugiati ambientali.
Miglioramento: attraverso interventi di geoingegneria su larga scala (nell’ultima parte del suo libro Brand ne fa un lungo elenco).

Il problema siamo noi, dicevamo: attualmente l’uomo consuma circa 16 terawatt di elettricità, gran parte della quale proviene dall’utilizzo di combustibili fossili: è come lasciare accese 160 miliardi lampadine da 100 watt senza spegnerle mai!

Per mantenere il livello di concentrazione di CO2 sotto i limiti di non ritorno dovremmo riuscire a produrre elettricità da combustibili fossili per appena 3 terawatt; il che significa che dovremmo produrre tutto il resto dell’elettricità di cui abbiamo bisogno attraverso fonti non fossili e soprattutto che dovremmo riuscirci al massimo entro i prossimi 25 anni.

Brand cita alcuni esempi pratici a riguardo.
Per ottenere 2 terawatt di fotovoltaico dovremmo installare 100 metri quadrati al secondo di celle solari per i prossimi 25 anni, per 2 terawatt di solare termodinamico 50 metri quadrati al secondo, per 2 terawatt di biocarburanti 4 piscine olimpiche di alghe geneticamente ingegnerizzate al secondo, per 2 terawatt di eolico una turbina eolica di 90 metri di diametro ogni 5 minuti, per 2 terawatt di geotermico 3 turbine a vapore da 100 megawatt ogni giorno e per 3 terawatt di nucleare una centrale da 3 gigawatt con 3 reattori alla settimana, il tutto sempre moltiplicato per 25 anni!

“Una cura per la Terra” si propone di offrire una serie di strumenti di cui gli ambientalisti hanno sempre diffidato ma che oggi, a parere dell’autore, sono indispensabili se vogliamo fare qualcosa per salvaguardare il futuro della nostra specie.

Nel capitolo dedicato al tema dell’urbanizzazione, Brand sostiene che le città sono fonte di ricchezza, assorbono popolazione e contribuiscono ad aumentare la capacità portante della Terra. Le città sono costose sia a livello ambientale che economico, ma i ricavi sono di gran lunga superiori ai costi. Nelle aree urbane promuovere nuove forme di produzione del reddito risulta molto più semplice, e fornire servizi è decisamente più economico: basta pensare all’istruzione, alla sanità, alle condizioni igieniche, acqua, energia elettrica: su base procapite tutto è decisamente più semplice ed economico. Brand, a sostegno della sua tesi cita la “Legge di Kleiber”: maggiori sono le dimensioni degli organismi, maggiore è la loro efficienza metabolica.

Per le città è lo stesso: riunire le persone rende tutto più efficiente, si richiede una quantità leggermente inferiore di tutto per ciascuno. Le città possono addirittura rappresentare un calmiere per il controllo demografico. Le statistiche infatti dimostrano come il calo delle nascite sia più sensibile nelle metropoli piuttosto che nelle zone scarsamente abitate del pianeta. Nelle aree urbane infatti il contributo economico dei bambini è praticamente assente e, man mano che le donne colgono sempre maggiori opportunità economiche, il costo sociale della procreazione aumenta.

E’ partendo da questo presupposto che Stewart Brand cerca di sviluppare il suo concetto di nuova “ecologia Urbana” come una delle potenziali soluzioni ai problemi dell’inquinamento.

Quando si tratta di cambiamento climatico, le persone più informate sono le più spaventate, mentre nel caso del nucleare i più informati sono i meno spaventati.
E’ con questo incipit che Brand affronta il capitolo più discusso del suo libro, ovvero quello dedicato al nucleare. Egli ammette di aver fatto parte fino a pochi anni fa della nutrita schiera di ambientalisti contro il nucleare e di aver cambiato idea a riguardo dopo aver visitato il deposito di scorie di Yucca Mountain (di recente il governo americano ne ha stabilito la chiusura definitiva). A parere dello scienziato americano il principale argomento usato contro il nucleare ovvero quello della gestione delle scorie, ha poco senso in quanto il principale errore in cui incorrono gli ambientalisti è quello di ragionare sempre in termini di contemporaneità del problema. Allo stato attuale le scorie possono, lo ammette, costituire un problema, ma come possiamo pensare che la tecnologia dell’uomo sia la stessa tra 200 anni quando, e solo allora, potenzialmente le scorie potranno divenire pericolose? Inoltre fa accenno ad una nuova strategia in via di sviluppo che prevede in un futuro prossimo l’impiego di trivellazioni a grande profondità (4-5 chilometri), dove nello strato roccioso l’acqua è molto salina e dove stipare le barre di carburante, dimenticandosi del problema. Egli inoltre sostiene che i nuovi reattori sono costruiti con tecnologie in grado di garantire quella sicurezza degli impianti che in passato non c’era. Sul problema dei costi eccessivi di realizzazione egli sostiene che in realtà il vero problema è rappresentato dai costi troppo bassi del carbone e a riguardo anch’egli si dichiara a favore della istituzione di una “carbon tax” ovvero di una tassa sulle emissioni di gas serra i cui ricavi siano però da subito utilizzati a vantaggio dei cittadini e ad incentivo di tutte le tecnologie “pulite”. Inoltre se è vero che una centrale nucleare ha costi esorbitanti nella sua fase di avvio è altrettanto vero che i suoi costi operativi risultano poi molto inferiori se paragonati a quelli delle centrali a carbone o a gas. I cosiddetti reattori di IV generazione saranno alimentati a torio, tre volte più abbondante dell’uranio, che non può essere fuso, non è utilizzabile per la fabbricazione delle armi e genera pochi rifiuti, con costi di costruzione ed esercizio inferiori, maggiore efficienza, ed infine alte temperature in grado di generare idrogeno e desalinizzare l’acqua.

In buona sostanza, Brand, come del resto anche J. Hansen, sostiene che, in mancanza di meglio, il nucleare in questo momento storico può rappresentare un’alternativa valida, una delle possibili soluzioni, certo non l’unica, per cercare di attenuare le problematiche connesse alle emissioni di gas serra, partendo anche dalla constatazione che le attuali energie alternative, come l’eolico ed il solare, ad oggi non sono in grado di garantire quella continuità di produzione indispensabile ad esempio alle città che necessitano di una rete elettrica che fornisca costantemente energia.

Le obiezioni che mi sento di fare a Brand riguardano tre aspetti. Il primo lo inquadro nel contesto italiano. Il nostro paese non ha depositi di uranio e dunque con la costruzione di centrali nucleari forse diminuiremo il nostro impatto sull’ambiente, certo non quello della dipendenza economica da altri Paesi, dai quali dovremo inevitabilmente acquistare il combustibile necessario al funzionamento delle nuove centrali. Il secondo punto riguarda l’annosa questione della gestione delle scorie: giudico un po’ troppo semplicistica l’ipotesi secondo cui tra 200 anni, ciò che oggi rappresenta un problema, l’uomo lo avrà probabilmente affrontato e risolto. Inoltre, purtroppo, inevitabilmente la tecnologia nucleare sarà una tecnologia selettiva, legata a specifiche competenze che di fatto continueranno a dividere il pianeta tra Paesi in grado di gestirla e trarne grossi profitti economici ed altri condannati a subirla, pagandone le conseguenze politiche, sociali ed economiche.

Lo scrittore affronta poi la delicata questione OGM.
Anche in questo caso egli cita un lungo elenco di casi e situazioni a vantaggio delle proprie tesi. Invito gli interessati a leggersi con calma il libro per poter valutare concretamente le posizioni di Brand. Mi limito, per ovvie ragioni di spazio a citare solo alcuni dei tanti esempi che egli fa.

E’ in corso – afferma S. Brand – dal 1996 il più grande esperimento dietetico della storia. Un immenso gruppo di persone – l’intera popolazione del Nord America – ha avuto il coraggio di iniziare a mangiare grandi quantità di cibi geneticamente ingegnerizzati. (….) Nel frattempo, il gruppo di controllo (la popolazione europea) ha fatto il considerevole sacrificio economico di fare a meno di queste colture e si è anche preso il disturbo di vietare tutte le importazioni di questi alimenti. (….) Ora i risultati sono pronti e incontrovertibili. Il gruppo sperimentale ed il gruppo di controllo non presentano differenze.”

Lo stesso Brand cerca di spiegare come nella vita di tutti i giorni siamo costantemente invasi da continui esempi di modificazioni genetiche senza che queste ci mettano in allarme: non proviamo alcuna repulsione al pensiero di un mulo, un incrocio innaturale tra un cavallo ed un asino; senza contare che la più grande impresa d’ingegneria genetica dell’umanità, la conversione di un’erba poco utile, nella piante alimentare più popolare del mondo, il mais, è stata realizzata dagli indiani pre-colombiani.

Ogni processo nella biosfera è influenzato dalla capacità dei microbi di trasformare il mondo attorno a loro. Sono i microbi che convertono gli elementi chiave della vita – carbonio, azoto, ossigeno e zolfo – in sostanze accessibili a tutte le altre forme viventi. “Ogni pochi minuti – sostiene ancora Brand – tutti i microbi del nostro corpo (e negli oceani, nel suolo e nell’aria) sfidano le precauzioni e Dio compiendo un atto illecito in Europa: si scambiano geni nell’infinita ricerca di vantaggi competitivi o collaborativi.”

Gli ingegneri genetici non hanno inventato niente - sempre secondo la tesi di Stewart Brand- ma preso in prestito la ricombinazione genetica. Immaginiamo di essere in un bar e di sfiorare un ragazzo dai capelli verdi e così acquisire parte del suo codice genetico. Usciremo dal bar con i capelli verdi e saremo in grado di passare il gene dei capelli verdi anche ai nostri figli. I batteri compiono di continuo questo tipo di acquisizione rapida dei geni. Talvolta gli esempi della natura possono essere estremamente costruttivi per noi. Di recente, gli scienziati stanno provando ad imitare quel miracoloso bioreattore presente nell’intestino delle termiti, dove la complessa colonia batterica che vi risiede è in grado di trasformare un foglio di comune carta in oltre 1,5 litri di idrogeno.

In effetti, se pensiamo alle potenziali applicazioni che potrebbe avere la ripetizione di questo processo su larga scala, debbo ammettere che in questo caso egli avrebbe ragione.

Per Brand, però, il dichiararsi a favore dell’ingegneria genetica non significa essere contrari all’agricoltura biologica cui vengono riconosciuti comunque grandi meriti. Anzi egli arriva a suggerire che probabilmente la soluzione ideale sarà proprio quella di riuscire a combinare in un prossimo futuro le due tecnologie: l’ingegneria genetica potrà essere utilizzata per produrre semi con una migliore resistenza a parassiti e patogeni, mentre l’agricoltura biologica potrà gestire il complesso dei parassiti in modo più efficace riducendo al contempo l’impatto dei concimi di sintesi, degli erbicidi e dei pesticidi sui suoli, le acque e la fauna.

Il testo non manca di accenni polemici contro il mondo ambientalista accusato dall’autore di essere troppo legato alle proprie ideologie e di non essere disposto a modificarle anche di fronte all’evidenza dei fatti. Anche in questo caso, lo riconosco, non tutte le accuse sono peregrine.
Al contempo però egli giudica comunque ancora prezioso il ruolo che gli ambientalisti potranno intraprendere nell’immediato futuro a patto di abbandonare la vena eccessivamente romantica che contraddistingue da sempre parte del movimento e che tende ad essere in genere pessimista.

Gli ambientalisti romantici, secondo Brand, hanno la tendenza a provare un certo disagio nei confronti di chi tenta di risolvere i problemi dato che l’essenza della tragedia è proprio il fatto di non poterla risolvere. E i romantici amano i problemi…
E d’altro canto anche gli ambientalisti romantici hanno un ruolo: quello di attrarre le persone attorno a se, quello di riuscirle a coinvolgerle emotivamente e dunque ad ispirarle.

Secondo Brand il nuovo ambientalismo pragmatico dovrà cercare di coinvolgere sempre più altre due categorie: gli scienziati che scoprono i problemi e gli ingegneri che in genere i problemi provano a risolverli.
In buona sostanza, l’ecopragmatismo suggerito da Brand invita tutti noi ad ampliare il campo di osservazione con cui valutare le nostre attività a favore della salvaguardia del pianeta. Ciò che facciamo, le attività nelle quali ci stiamo impegnando andrà ben oltre la durata della nostra vita e potrà riguardare il futuro di centinaia di generazioni. E’ con questa ottica che dobbiamo valutarlo.

Dobbiamo avere il coraggio di ripensare e mettere sempre in discussione le nostre idee; questo alla fine il messaggio che mi sento di condividere con l’autore del libro.

Forse qualcuno di noi ha gridato troppo spesso al lupo, al lupo, con il risultato di veder screditata la propria attendibilità come profeta di sventure; forse un pizzico di ottimismo in più in quanto facciamo potrebbe essere di aiuto a tutti nel lungo percorso che ci attende; resta però in me la convinzione che un sano principio di precauzione debba essere sempre applicato da chiunque, anche dagli eco-pragmatisti.

Philip Tetlock, psicologo e politologo ha scritto: “Come pensi, conta più di ciò che pensi”.

Michele Salvadori