venerdì 2 aprile 2021

"CLIMA, come evitare un disastro" di Bill Gates

Nei giorni che precedono la Pasqua ed in un mondo ancora devastato dal Covid-19 credo sia importante guardare con un filo di ottimismo al futuro che ci attende. E’ con queste motivazioni che ho letto il libro di Bill Gates dal titolo “CLIMA, come evitare un disastro” (Edizioni La Nave di Teseo).


Ed ammetto che le mie speranze non sono state disattese.

Ormai sono molti i testi di questo tipo che nel corso degli anni ho affrontato nella speranza di apprendere le strategie migliori per difendere il pianeta dagli effetti, talora nefasti, causati dall’azione dell’uomo. Da questo punto di vista tale pubblicazione non rappresenta una vera novità rispetto ad altre uscite prima. Tuttavia questo libro ha un pregio particolare a mio avviso: quello di saper utilizzare un linguaggio estremamente semplice ed in grado di raggiungere anche un pubblico non particolarmente avvezzo ad occuparsi di certe discipline.

Ho un figlio di 14 anni che quest’anno frequenta il primo anno di Liceo. Leggendo il testo di Bill Gates ho subito pensato che esso potesse essere adatto a persone come Lui che abbiano la curiosità di voler farsi un’idea di cosa parliamo quando affrontiamo il tema della crisi climatica ed ambientale, di come ci siamo arrivati, quali siano le principali cause e cosa possiamo fare in concreto in primis per mitigarne gli effetti da subito e poi, di qui a qualche decina di anni (i tempi purtroppo sono, ahimè, lunghi), riuscire ad adottare delle misure tali da superarla definitivamente.

Gates, da uomo concreto, ci porta subito in medias res, sin dalla sua introduzione: “Ci sono due numeri da sapere se si parla di cambiamento climatico. Il primo è cinquantuno miliardi. Il secondo è zero.” Il primo dato si riferisce alla quantità media di anidride carbonica che ogni anno producono le attività umane.

Zero è il numero a cui dobbiamo arrivare”.

Gates non ha la presunzione di dare nulla per scontato e dunque nell’analisi delle cause che hanno portato alla situazione attuale non ha problemi a spiegarne l’origine, nel tornare ad affrontare anche concetti base e forse per alcuni di noi ormai fin scontati come l’effetto serra e tutte le conseguenze che l’innalzamento della temperatura provoca. Ma il fondatore di Microsoft non si limita a questo; egli ci spiega la necessità fondamentale non solo di ridurre le emissioni ma anche quella, ad un certo momento, di dover iniziare a preoccuparsi di eliminare dall’atmosfera almeno una parte delle emissioni di gas serra da noi immesse in eccesso.

Il tema è affrontato nelle sue molteplici sfaccettature; si va dall’ancora indubbia convenienza economica dei combustibili fossili (che però nel loro costo di produzione non prevedono l’inserimento delle tante e cosidette esternalità ovvero dei costi causati dagli effetti negativi del consumo di combustibili fossili) rispetto a tutte le cosiddette energie alternative( solare, eolico, idroelettrico ecc.); dal fatto che ancora sul clima esistono larghe fasce di popolazione che risultano insensibili a questa problematica ( e da qui la grande necessità di informarle ed il fondamentale ruolo a riguardo da parte degli organi dell’istruzione e dell’informazione) fino ad arrivare al fatto che una buona parte degli strumenti necessari al cambiamento di orizzonte l’uomo già li possiede.

Gates pubblica un’interessante tabella che illustra le percentuali di gas serra che vengono emesse dalle principali attività dell’uomo:

Produzione industriale (cemento, acciaio, materie plastiche)

31%

Produzione di energia elettrica

27%

Agricoltura e allevamento

19%

Trasporti (aerei, camion, navi mercantili)

16%

Riscaldamento e condizionamento

7%

Se vogliamo risolvere il problema del riscaldamento climatico dovremo intervenire in tutti questi settori e non solo agendo su una parte di essi.

In tema di produzione di elettricità, ad esempio, Gates ci ricorda che ad oggi circa due terzi dell’elettricità generata nel mondo viene ricavata dai combustibili fossili. Pertanto, e quindi purtroppo, l’atto di acquistare, un veicolo elettrico, in questo momento non risolve il problema dell’inquinamento da gas serra prodotto nel campo dei trasporti e della mobilità privata, almeno fino a quando non saremo in grado di produrre energia elettrica da centrali che utilizzano fonti alternative.

D’altro canto le energie verdi quali, eolico e solare hanno purtroppo il grave handicap di non poter essere costanti e la loro intermittenza impedisce attualmente all’uomo di poterle utilizzare come costante e concreta alternativa a quelle fossili.

Andando poi decisamente in controtendenza, Gates nel suo libro si pronuncia favore dell’energia nucleare che, specie dopo i gravissimi incidenti di Three Mile Island, Černobyl' e Fukushima, la gran parte di noi dava ormai per morta e sepolta. Egli ne ribadisce le qualità in termini di economicità ed assenza di emissioni ad effetto serra, pur non nascondendo i problemi legati alla sicurezza ed alla gestione delle scorie, ma al contempo ritiene che le nuove tecnologie oggi siano in grado di garantire la costruzione di nuove centrali nucleari decisamente più sicure rispetto a quelle del passato.

Di grande interesse è anche il capitolo dedicato alle emissioni di gas serra (ben il 19% del totale!) causate dagli allevamenti di animali, in particolare dei bovini e suini, che sposta il problema sulle abitudini alimentari della gran parte della popolazione, almeno dei paesi medio/ricchi. Il nostro consumo di carne è oggi indubbiamente eccessivo. Dovremo, tra le altre, per forza modificare anche le nostre abitudini in tema di cibo per contribuire alla riduzione dei gas serra.

Ho trovato egualmente interessante il tema dei fertilizzanti chimici ed il loro utilizzo nell’agricoltura intensiva che ha moltiplicato le capacità di incremento dei raccolti ma col tempo causato anche un impoverimento progressivo del terreno ed un notevole incremento in termini di emissioni di gas serra derivante dai processi di produzione dei fertilizzanti sintetici.

Bill Gates propone un elenco di tecnologie che nell’insieme, se adottate con convinzione, potranno davvero portarci a raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero: Idrogeno prodotto senza emettere anidride carbonica, biocarburanti, cemento e acciaio prodotti a zero emissioni, latticini e carne a base vegetale, fertilizzanti ad emissioni zero, fissione nucleare di nuova generazione, cattura dell’anidride carbonica, materie plastiche ad impatto zero, sono solo alcune delle tecnologie perfezionabili nei prossimi anni e che, a parere di Gates, potranno contribuire in modo concreto a modificare gli attuali parametri delle emissioni.

Il tutto, secondo Gates, non potrà tuttavia essere realizzato senza la volontà politica di adottare seriamente queste misure. Ma la volontà politica potrà maturare a sua volta solo attraverso le pressioni della volontà popolare che, a sua volta, potrà concretizzarsi solo quando nella gran parte della popolazione sarà maturata una coscienza ed una maggiore sensibilità a queste tematiche. Da questo ultimo punto nasce la grande determinazione dell’autore, attraverso le iniziative della sua Fondazione Gates, condiretta da lui e sua moglie, per la divulgazione scientifica ed il finanziamento a progetti di ricerca che favoriscano lo sviluppo della produzione di energia a basso impatto.

Michele Salvadori

venerdì 5 febbraio 2021

"E se smettessimo di fingere?" di Jonathan Franzen

Torno a parlare di Jonathan Franzen del quale ho commentato già il suo “La fine della fine della terra” in quanto mi sono imbatttuto in questa sua piccola opera (40 pagine in tutto) nella quale lo scrittore statunitense torna ad affrontare il tema del cambiamento climatico fornendo quella che sembra essere la sua tesi definitiva sull’argomento.

Il titolo di questo piccolo pamphlet è “E se smettessimo di fingere?” – Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica – (Edizioni Einaudi). Il messaggio appare chiaro ed in apparenza disarmante, sembrerebbe.

Lo spunto Franzen lo prende da un episodio vissuto in prima persona nel corso di un viaggio nell’entroterra della Germania, da Berlino in direzione della città di Joteborg, fatto nell’estate del 2019 dove lo scrittore ed un suo amico assistono impotenti ad un incendio di spaventose dimensioni che nel giro di pochissimo tempo distrugge centinaia di ettari di territorio boschivo.

La cosa mi ha particolarmente colpito perché mi ha ricordato le mie esperienze, altrettanto dirette ed in prima persona, sperimentate nel corso di questi ultimi anni girando in auto per l’Italia e di cui ho già parlato in precedenza su questo blog.

C’è poco da fare; niente è più convincente del vivere in prima persona certe situazioni per maturare in noi determinate convinzioni. Così come nessuno, in questo periodo, può avere le idee più chiare, sulla gravità della pandemia che stiamo attraversando, dei medici ed infermieri che la vivono in prima persona quotidianamente negli ospedali, nessuno meglio di chi assiste e scampa ad un violento evento naturale può convincersi del drastico cambiamento climatico che stiamo vivendo.

Sapevo già che il nostro futuro non promette nulla di buono, ma solo quando ho visto quegli alberi esplodere tra le fiamme, e ho assistito all’impotenza dei pompieri e dei gestori della riserva davanti alle forze della natura scatenate, ho avvertito anche emotivamente la rapidità con cui quelle catastrofi si stanno avvicinando.”

Secondo Franzen ci sono solo due modi di affrontare la questione: sperare di essere ancora in tempo a modificare con le nostre azioni ed i nostri comportamenti la situazione, oppure accettare che ormai le cose andranno inevitabilmente a peggiorare a prescindere, perché il nostro destino è ormai segnato. Per Franzen ormai è troppo tardi per sfuggire alla seconda ipotesi soprattutto perché egli non crede affatto alla possibilità di una “trasformazione radicale della natura umana” perché è questo che ci vorrebbe.

Ancora oggi una grossa fetta dell’umanità non è disposta a rinunciare ai benefici acquisiti e preferisce continuare a fare finta di nulla; non si va dal dentista fino a quando il dente non ci procura un dolore insopportabile; la rana messa dentro una pentola di acqua fredda quando l’acqua inizia a bollire rimane dentro la pentola non essendo consapevole del pericolo fino a quando è ormai troppo tardi e la stessa muore bollita. Similmente si comporta una gran parte dell’umanità sulla questione dei cambiamenti climatici.

La conclusione a cui lo scrittore giunge è dunque amara e pessimista; tuttavia, non per questo, egli sostiene, dovremo rimanere inerti. “Anche se non possiamo più sperare di salvarci…ci sono ancora ottime ragioni pratiche ed etiche per ridurre le emissioni”. Dimezzare le nostre emissioni di anidride carbonica potrebbe infatti rendere meno gravi gli effetti immediati del riscaldamento e probabilmente posticiperebbe il cosiddetto punto di non ritorno.

Similmente ad un malato terminale di cancro che anziché abbandonarsi allo sconforto accetta di sottoporsi a delle cure che non lo guariranno ma che comunque potranno prolungargli di qualche anno l’aspettativa di vita, Franzen si dichiara comunque favorevole all’adozione di tutte quelle misure che possono concretamente ritardare l’esito finale di una guerra ormai persa.

Azioni che combattano, ad esempio, il degrado del suolo e delle acque, l’abuso di pesticidi e la devastazione delle riserve ittiche, la predisposizione d’interventi che riducano il rischio incendi e delle inondazioni, l‘organizzazione di sistemi che regolino e gestiscano l’afflusso, inevitabile, dei profughi, e, soprattutto, il mantenimento di democrazie funzionanti che tutelino lo stato di diritto, saranno la migliore difesa adottabile da parte dell’uomo affinchè si possa se non altro ritardare e rendere più sopportabile il destino che lo attende.

Franzen conclude la propria riflessione facendo un appello ai concetti di “speranza” e “amore”. Un mondo che non vive di speranza è senza dubbio battuto in partenza. Un mondo le cui azioni non scaturiscono prima di tutto dall’amore per quello che ci circonda difficilmente continuerà a mantenere le sue ragioni di essere. Se non coltiviamo un filo di speranza e di amore difficilmente troveremo la forza di andare comunque avanti.

Mai dunque perdere la speranza, mai vivere senza amore, questa mi sembra senza dubbio la parte più condivisibile e più importante del messaggio lanciato da Franzen.

Michele Salvadori

sabato 2 gennaio 2021

"La sfida di Gaia" di Bruno Latour


Ormai da oltre una decina di anni mi muovo in lungo e in largo per l’Italia. Causa il tipo di lavoro che svolgo sono costretto ad utilizzare come mezzo di trasporto un’auto con la quale compio migliaia di chilometri viaggiando in ogni stagione ed in ogni condizione meteo. Ho potuto sperimentare di persona e più volte cosa significa il cambiamento climatico e come negli ultimi anni si sia verificata una accelerazione verso un’instabilità metereologica sempre più contraddistinta da fenomeni di estrema violenza. Mai come negli ultimi anni e con frequenza purtroppo sempre crescente, ho dovuto affrontare in auto piogge torrenziali quanto improvvise, bombe d’acqua, trombe d’aria e via dicendo, in ogni stagione ed in ogni zona d’Italia.

Ormai partire da casa per un viaggio di lavoro contempla inevitabilmente prendere in seria considerazione le previsioni metereologiche prima di ogni altra cosa ed agire di conseguenza. Se un tempo prima della partenza mi sentivo dire da mia moglie la consueta frase: “Mi raccomando, vai piano, sii prudente”. Ora la prima questione è diventata: “Che tempo farà nei prossimi giorni in Liguria? In Veneto? E in Campania?”.

Il cambiamento climatico in atto ai mei occhi è talmente evidente e mi procura così tanta ansia alla vigilia di ogni mia trasferta che sinceramente fatico a comprendere come ci siano ancora molti che ne sostengono l’inesistenza e, di conseguenza, non sembrano preoccuparsi di quanto stia avvenendo.

Per questo ho letto con grande interesse “La sfida di Gaia”, titolo del saggio edito da Meltemi che raccoglie otto conferenze del filosofo e antropologo francese, Bruno Latour attraverso le quali egli tenta di abbattere i muri che ancora separano i saperi scientifico e umanistico provando a dare un contributo anche da parte del mondo della filosofia alla causa della sostenibilità ambientale.

Premetto che a differenza della gran parte delle altre opere che ho commentato su questo blog - tutte più o meno accomunate da intenti divulgativi e di più semplice presa - stavolta il contenuto di questo saggio è di complessità superiore e probabilmente di non facile comprensione per chiunque. Io almeno ho faticato non poco nell’affrontare alcuni passaggi di questo libro sui quali mi sono dovuto soffermare più a lungo del solito per comprenderne il significato. Ciononostante credo che ogni tanto ci si debba cimentare anche con testi superiori alle nostre capacità per compiere dei passi in avanti.

Bruno Latour parte proprio dalla domanda che in tanti ci poniamo quotidianamente. Fenomeni quali innalzamento del livello dei mari, scomparsa dei ghiacciai, innalzamento dei livelli di CO2, aumento delle temperature (sembra che il 2020 sia stato l’anno più caldo di sempre), acidificazione degli oceani, scomparsa delle specie animali, tutto conferma che stiamo vivendo una profonda crisi ecologica. Eppure, una consistente fetta della società continua a non dare segni di preoccuparsi di certi fenomeni quasi che questi fossero eventi che non la riguardano. Com’è possibile?

L’analisi di Bruno Latour è incentrata innanzitutto a trovare le cause principali a questa sorta d’indifferenza semi collettiva che contraddistingue una parte della nostra società.

A parere di Latour la refrattarietà da parte di parte dell’umanità a reagire alle conseguenze della crisi climatica è frutto di una realtà ormai estremamente complessa nella quale viviamo. Ma per il filosofo francese siamo giunti a questa situazione anche a causa di un mancato dialogo tra i vari saperi. Nell’ultimo mezzo secolo, le voci inascoltate degli scienziati avrebbero avuto probabilmente maggiore eco se a recepirle non ci fossero stati solamente i loro colleghi di altre discipline tecnico-scientifiche, ma gli umanisti, quei filosofi, sociologi e antropologi in grado di valutare gli impatti della crisi ecologica sugli esseri umani.

Latour parte dall’analisi di una delle teorie cardine della scienza ambientale ovvero dall’ Ipotesi Gaia” di James Lovelock, già commentata anche dal sottoscritto su questo blog. Alla fine degli anni Settanta, Lovelock ipotizza l’idea che gli oceani, i mari, l'atmosfera, la crosta terrestre e tutte le altre componenti geofisiche del pianeta Terra si mantengano in condizioni idonee alla presenza della vita proprio grazie al comportamento e all'azione di tutti quegli organismi che concorrono a formarla; la Terra (Gaia, appunto) è, secondo lo scienziato inglese, un unico organismo vivente capace di autoregolarsi e di rispondere a tutti quei fattori nuovi e avversi che ne turbano gli equilibri naturali. La materia vivente non rimane passiva di fronte a ciò che minaccia la sua esistenza.

Latour inizia con una provocazione: la rivoluzione auspicata dalle menti progressiste si è già realizzata, non per l’auspicato cambiamento nella proprietà dei mezzi di produzione, ma per un’accelerazione nel movimento del ciclo del carbonio. I mari si riscaldano, l’acidità degli oceani è in costante crescita, quali che siano le strategie di resilienza nell’immediato futuro faremo i conti con tutti i tipping points che sono stati superati da tempo. Siamo nell’età delle conseguenze. Per chi non lo avesse ben chiaro: nell’età delle conseguenze dell’attività umana.

Secondo Latour parte della società resta insensibile alle questioni ecologiche, appare indifferente quasi che quest’ultime non la coinvolgessero direttamente proprio perché contrariamente a quanto teorizzato da Lovelock, questa parte di società sente, erroneamente, di non appartenere più a Gaia, di non fare più parte dello stesso “mondo” fisico.

Andare a dire agli occidentali che il tempo è finito, che il loro mondo è giunto al termine, che è necessario un cambiamento del loro stile di vita, non può che suscitare un sentimento di totale incomprensione poiché, per loro, l’apocalisse è già avvenuta.” A parere di Latour i cosiddetti scettici del clima reputano degli svitati, delle moderne “Cassandre” i profeti di sventura del cambiamento climatico.

Ciò avviene, secondo Latour, “in un momento in cui la figura dell’umano non è mai apparsa così inadatta a tenerne conto”, un contesto storico in cui “siamo alfine riusciti a universalizzare su tutta la superficie della Terra lo stesso umanoide economizzatore e calcolatore”.  Da una parte c’è l’homo oeconomicus, dedito solo alla cura dei propri interessi individuali ed incarnazione del capitale, dall’altra Gaia.

In un Pianeta egemonizzato e omogeneizzato dall’economia, la presenza dell’umano è ovunque, così come la sua relazione con ciò che una volta era considerato naturale, eppure la centralità assunta da Gaia continua a essere percepita da una parte minoritaria di coloro che hanno accesso alla conoscenza:

Avete sicuramente notato che gli individui che rimangono insensibili alle crisi ecologiche sono molto suscettibili su tutte le questioni di morale come di identità e pronti a scendere in piazza quando i loro interessi sono minacciati. Se hanno scelto di essere negligenti è solo nei confronti di esseri che appartengono al regno della ‘natura’”.

Ma, al contrario, a parere di Latour l’unica possibilità che abbiamo per allontanarci dall’Apocalisse che altrimenti ci attende sarà proprio tornare a percorrere la strada del linguaggio apocalittico, convincere questi “scettici” dell’immutato radicamento dell’essere umano alla Terra.

Gaia è un’ingiunzione a rimaterializzare l’appartenenza al mondo”.

Nella parte finale del saggio Latour afferma con forza l’anacronismo di istanze sostenute dagli Stati-nazione e la necessità di dar voce a Gaia: “La finzione non risiede nel dare voce all’acqua, ma nel credere che si possa fare a meno di rappresentarla con una voce umana, capace di farsi comprendere da altri umani”.

La scienza dell’Economia ha depotenziato gli Stati, li ha privati della capacità di garantire la difesa ai propri soggetti:

Il fallimento della lotta dello Stato contro le mondializzazioni successive non l’ha preparato affatto a tenere conto di questa nuova forma di mondializzazione da parte della Terra stessa. Nell’epoca dell’Antropocene lo Stato sovrano si ritrova quindi affetto da obsolescenza, proprio nel momento in cui la mondializzazione planetaria diviene letteralmente, e non più figurativamente, il pianeta”.

Michele Salvadori