Torno a parlare di Jonathan Franzen del quale ho commentato già il suo “La fine della fine della terra” in quanto mi sono imbatttuto in questa sua piccola opera (40 pagine in tutto) nella quale lo scrittore statunitense torna ad affrontare il tema del cambiamento climatico fornendo quella che sembra essere la sua tesi definitiva sull’argomento.
Il titolo di questo piccolo pamphlet è “E se smettessimo di fingere?” – Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica – (Edizioni Einaudi). Il messaggio appare chiaro ed in apparenza disarmante, sembrerebbe.
Lo spunto Franzen lo prende da un episodio vissuto in prima persona nel corso di un viaggio nell’entroterra della Germania, da Berlino in direzione della città di Joteborg, fatto nell’estate del 2019 dove lo scrittore ed un suo amico assistono impotenti ad un incendio di spaventose dimensioni che nel giro di pochissimo tempo distrugge centinaia di ettari di territorio boschivo.
La cosa mi ha particolarmente
colpito perché mi ha ricordato le mie esperienze, altrettanto dirette ed in
prima persona, sperimentate nel corso di questi ultimi anni girando in auto per
l’Italia e di cui ho già parlato in precedenza su questo blog.
C’è poco da fare; niente è più
convincente del vivere in prima persona certe situazioni per maturare in noi
determinate convinzioni. Così come nessuno, in questo periodo, può avere le
idee più chiare, sulla gravità della pandemia che stiamo attraversando, dei
medici ed infermieri che la vivono in prima persona quotidianamente negli
ospedali, nessuno meglio di chi assiste e scampa ad un violento evento naturale
può convincersi del drastico cambiamento climatico che stiamo vivendo.
“Sapevo già che il nostro
futuro non promette nulla di buono, ma solo quando ho visto quegli alberi
esplodere tra le fiamme, e ho assistito all’impotenza dei pompieri e dei
gestori della riserva davanti alle forze della natura scatenate, ho avvertito
anche emotivamente la rapidità con cui quelle catastrofi si stanno
avvicinando.”
Secondo Franzen ci sono solo due
modi di affrontare la questione: sperare di essere ancora in tempo a modificare
con le nostre azioni ed i nostri comportamenti la situazione, oppure accettare
che ormai le cose andranno inevitabilmente a peggiorare a prescindere, perché
il nostro destino è ormai segnato. Per Franzen ormai è troppo tardi per
sfuggire alla seconda ipotesi soprattutto perché egli non crede affatto alla
possibilità di una “trasformazione radicale della natura umana” perché è questo
che ci vorrebbe.
Ancora oggi una grossa fetta
dell’umanità non è disposta a rinunciare ai benefici acquisiti e preferisce
continuare a fare finta di nulla; non si va dal dentista fino a quando il dente
non ci procura un dolore insopportabile; la rana messa dentro una pentola di
acqua fredda quando l’acqua inizia a bollire rimane dentro la pentola non
essendo consapevole del pericolo fino a quando è ormai troppo tardi e la stessa
muore bollita. Similmente si comporta una gran parte dell’umanità sulla
questione dei cambiamenti climatici.
La conclusione a cui lo scrittore
giunge è dunque amara e pessimista; tuttavia, non per questo, egli sostiene,
dovremo rimanere inerti. “Anche se non possiamo più sperare di salvarci…ci sono
ancora ottime ragioni pratiche ed etiche per ridurre le emissioni”. Dimezzare
le nostre emissioni di anidride carbonica potrebbe infatti rendere meno gravi
gli effetti immediati del riscaldamento e probabilmente posticiperebbe il
cosiddetto punto di non ritorno.
Similmente ad un malato terminale
di cancro che anziché abbandonarsi allo sconforto accetta di sottoporsi a delle
cure che non lo guariranno ma che comunque potranno prolungargli di qualche
anno l’aspettativa di vita, Franzen si dichiara comunque favorevole
all’adozione di tutte quelle misure che possono concretamente ritardare l’esito
finale di una guerra ormai persa.
Azioni che combattano, ad
esempio, il degrado del suolo e delle acque, l’abuso di pesticidi e la
devastazione delle riserve ittiche, la predisposizione d’interventi che
riducano il rischio incendi e delle inondazioni, l‘organizzazione di sistemi che
regolino e gestiscano l’afflusso, inevitabile, dei profughi, e, soprattutto, il
mantenimento di democrazie funzionanti che tutelino lo stato di diritto, saranno
la migliore difesa adottabile da parte dell’uomo affinchè si possa se non altro
ritardare e rendere più sopportabile il destino che lo attende.
Franzen conclude la propria
riflessione facendo un appello ai concetti di “speranza” e “amore”. Un mondo
che non vive di speranza è senza dubbio battuto in partenza. Un mondo le cui
azioni non scaturiscono prima di tutto dall’amore per quello che ci circonda
difficilmente continuerà a mantenere le sue ragioni di essere. Se non
coltiviamo un filo di speranza e di amore difficilmente troveremo la forza di
andare comunque avanti.
Mai dunque perdere la speranza,
mai vivere senza amore, questa mi sembra senza dubbio la parte più
condivisibile e più importante del messaggio lanciato da Franzen.
Michele Salvadori
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