venerdì 5 febbraio 2021

"E se smettessimo di fingere?" di Jonathan Franzen

Torno a parlare di Jonathan Franzen del quale ho commentato già il suo “La fine della fine della terra” in quanto mi sono imbatttuto in questa sua piccola opera (40 pagine in tutto) nella quale lo scrittore statunitense torna ad affrontare il tema del cambiamento climatico fornendo quella che sembra essere la sua tesi definitiva sull’argomento.

Il titolo di questo piccolo pamphlet è “E se smettessimo di fingere?” – Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica – (Edizioni Einaudi). Il messaggio appare chiaro ed in apparenza disarmante, sembrerebbe.

Lo spunto Franzen lo prende da un episodio vissuto in prima persona nel corso di un viaggio nell’entroterra della Germania, da Berlino in direzione della città di Joteborg, fatto nell’estate del 2019 dove lo scrittore ed un suo amico assistono impotenti ad un incendio di spaventose dimensioni che nel giro di pochissimo tempo distrugge centinaia di ettari di territorio boschivo.

La cosa mi ha particolarmente colpito perché mi ha ricordato le mie esperienze, altrettanto dirette ed in prima persona, sperimentate nel corso di questi ultimi anni girando in auto per l’Italia e di cui ho già parlato in precedenza su questo blog.

C’è poco da fare; niente è più convincente del vivere in prima persona certe situazioni per maturare in noi determinate convinzioni. Così come nessuno, in questo periodo, può avere le idee più chiare, sulla gravità della pandemia che stiamo attraversando, dei medici ed infermieri che la vivono in prima persona quotidianamente negli ospedali, nessuno meglio di chi assiste e scampa ad un violento evento naturale può convincersi del drastico cambiamento climatico che stiamo vivendo.

Sapevo già che il nostro futuro non promette nulla di buono, ma solo quando ho visto quegli alberi esplodere tra le fiamme, e ho assistito all’impotenza dei pompieri e dei gestori della riserva davanti alle forze della natura scatenate, ho avvertito anche emotivamente la rapidità con cui quelle catastrofi si stanno avvicinando.”

Secondo Franzen ci sono solo due modi di affrontare la questione: sperare di essere ancora in tempo a modificare con le nostre azioni ed i nostri comportamenti la situazione, oppure accettare che ormai le cose andranno inevitabilmente a peggiorare a prescindere, perché il nostro destino è ormai segnato. Per Franzen ormai è troppo tardi per sfuggire alla seconda ipotesi soprattutto perché egli non crede affatto alla possibilità di una “trasformazione radicale della natura umana” perché è questo che ci vorrebbe.

Ancora oggi una grossa fetta dell’umanità non è disposta a rinunciare ai benefici acquisiti e preferisce continuare a fare finta di nulla; non si va dal dentista fino a quando il dente non ci procura un dolore insopportabile; la rana messa dentro una pentola di acqua fredda quando l’acqua inizia a bollire rimane dentro la pentola non essendo consapevole del pericolo fino a quando è ormai troppo tardi e la stessa muore bollita. Similmente si comporta una gran parte dell’umanità sulla questione dei cambiamenti climatici.

La conclusione a cui lo scrittore giunge è dunque amara e pessimista; tuttavia, non per questo, egli sostiene, dovremo rimanere inerti. “Anche se non possiamo più sperare di salvarci…ci sono ancora ottime ragioni pratiche ed etiche per ridurre le emissioni”. Dimezzare le nostre emissioni di anidride carbonica potrebbe infatti rendere meno gravi gli effetti immediati del riscaldamento e probabilmente posticiperebbe il cosiddetto punto di non ritorno.

Similmente ad un malato terminale di cancro che anziché abbandonarsi allo sconforto accetta di sottoporsi a delle cure che non lo guariranno ma che comunque potranno prolungargli di qualche anno l’aspettativa di vita, Franzen si dichiara comunque favorevole all’adozione di tutte quelle misure che possono concretamente ritardare l’esito finale di una guerra ormai persa.

Azioni che combattano, ad esempio, il degrado del suolo e delle acque, l’abuso di pesticidi e la devastazione delle riserve ittiche, la predisposizione d’interventi che riducano il rischio incendi e delle inondazioni, l‘organizzazione di sistemi che regolino e gestiscano l’afflusso, inevitabile, dei profughi, e, soprattutto, il mantenimento di democrazie funzionanti che tutelino lo stato di diritto, saranno la migliore difesa adottabile da parte dell’uomo affinchè si possa se non altro ritardare e rendere più sopportabile il destino che lo attende.

Franzen conclude la propria riflessione facendo un appello ai concetti di “speranza” e “amore”. Un mondo che non vive di speranza è senza dubbio battuto in partenza. Un mondo le cui azioni non scaturiscono prima di tutto dall’amore per quello che ci circonda difficilmente continuerà a mantenere le sue ragioni di essere. Se non coltiviamo un filo di speranza e di amore difficilmente troveremo la forza di andare comunque avanti.

Mai dunque perdere la speranza, mai vivere senza amore, questa mi sembra senza dubbio la parte più condivisibile e più importante del messaggio lanciato da Franzen.

Michele Salvadori