Il mondo ambientalista e quello
dei produttori delle cosiddette “energie sporche” rappresentano realmente due
mondi contrapposti, le cui idee e prospettive sono e resteranno per sempre
inconciliabili? Ho voluto, questa volta, cercare di capire il punto di vista di
qualcuno che certo non appartiene alla corrente ambientalista.
Giuseppe Recchi, presidente ENI, sesto gruppo petrolifero mondiale,
è l’autore di questo breve testo, dal titolo “Nuove Energie- le sfide per lo
sviluppo dell’Occidente” (Marsilio Editore, €. 13,00).
Ho innanzitutto apprezzato il
tono divulgativo con cui è scritto il testo che consente di avvicinarsi a
tematiche complesse come quella dell’utilizzo dell’energia anche a chi, come il
sottoscritto, non ne è un esperto, ed anche la sua concisione, (appena 160
pagine), che non spaventa un lettore medio che spesso, di fronte a volumi della
consistenza volumetrica e del peso dei mattoni, giustamente viene scoraggiato
in partenza.
“La storia dell’energia è la storia del mondo”, recita l’incipit
dei questo libro. Come non dargli ragione.
Il presidente dell’ENI ripercorre
innanzitutto la storia dello sfruttamento delle fonti energetiche da parte
dell’uomo a cominciare dall’utilizzo dell’olio di balena come principale fonte utilizzata
per l’illuminazione e giunge poi a narrare la storia della perforazione dei
primi pozzi petroliferi a metà dell’Ottocento, proprio alla ricerca di una
fonte alternativa a quella fornita da balene e Capodogli, il cui numero stava
repentinamente diminuendo a causa dell’intensificazione della caccia da parte
dell’uomo.
Uno dei primi obiettivi di Recchi
sembra essere quello di distruggere la teoria del “picco di Hubbert”, dal
nome del geofisico americano M.K.Hubbert che ipotizzava che la produzione mondiale di petrolio si sarebbe
progressivamente esaurita. Per anni, ci spiega Recchi, siamo stati convinti di
essere vicinissimi al picco del petrolio ed in parte le previsioni si
avverarono, se è vero che tra il 1970 e il 1971 negli USA il picco fu raggiunto
sul serio. Secondo la quasi totalità degli esperti avremmo poi dovuto
raggiungere il picco del petrolio a livello globale attorno alla metà degli
anni ottanta. Addirittura il “Club di Roma” aveva previsto che attorno al 2000
la produzione del petrolio si sarebbe dimezzata. Per la cronaca, la produzione
di greggio nel 2000 è risultata essere superiore del 25% rispetto a quella
degli anni ottanta.
Questo grossolano errore di
previsione secondo l’autore si è verificato per gli scarsi dati informativi a
disposizione degli scienziati al momento di formulare le loro teorie e per non
aver considerato che i progressi della scienza e della tecnologia avrebbero,
come di fatto si è poi verificato, consentito nuove metodologie estrattive più
efficaci ed efficienti e l’individuazione di riserve di idrocarburi in aree
ancora non esplorate. In ultima analisi, l’unica risorsa davvero inesauribile -
questa la tesi di Recchi - è la creatività dell’uomo che nei momenti di
difficoltà spesso riesce a trovare strade alternative all’inizio impensabili.
La teoria del “peak
oil” è dunque ormai screditata. Recchi afferma che le attuali stime
parlano di disponibilità di petrolio e suoi derivati per almeno altri 180 anni.
Tuttavia lo stesso Recchi ammette pure che non è affatto detto che sarà ancora
il petrolio, nei prossimi cento e passa anni, ad avere un ruolo cruciale in
campo energetico. Le stime dell’International Energy Outlook 2013 parlano,
tra l’altro, di un incremento del consumo di energia nei prossimi trent’anni di
circa il 56%.
Come affrontare il problema, allora?
Anche per Recchi, come per molti
addetti ai lavori, la prima soluzione è l’enorme potenziale rappresentato dalla
cosiddetta “rivoluzione non convenzionale”
dello Shale Gas. Com’è noto, quando
parliamo di shale gas ci riferiamo all’estrazione di gas naturale o di petrolio
da rocce particolari: gli scisti argillosi, ricchi, in
particolare, di gas metano. Il fenomeno era noto da tempo; quello che non
avevamo era la tecnologia adatta all’estrazione. Dieci anni fa, George P. Mitchell ha rivoluzionato le
tecniche di estrazione del gas con il sistema di fratturazione, detto fracking,
che sfrutta la pressione di un fluido – in genere acqua – per creare e poi
propagare una frattura in uno strato roccioso.
La portata di questo sistema
estrattivo è enorme. Ancora nel 2000 negli USA lo shale gas rappresentava
appena l’1% del gas naturale consumato. Al 2012 era già al 25% e si stima che
nel 2030 la quota avrà superato il 50%. Nel giro di pochi anni gli USA non solo
raggiungeranno l’autosufficienza ma addirittura diverranno esportatori di LNG
(gas naturale liquefatto).
Aree del pianeta con maggiore presenza di Gas di argille |
Per il momento, la rivoluzione
dello shale gas noi europei la osserviamo da lontano. Secondo alcune stime, in
Europa ci sono giacimenti di shale gas per 13 mila miliardi di metri cubi.
Tuttavia Recchi non è ottimista sulla possibilità che anche nel nostro
continente si verifichi un’equivalente rivoluzione energetica analoga a quella
che sta avvenendo negli USA, non tanto per ragioni geologiche quanto per
ragioni politiche e soprattutto perché la politica energetica in Europa non è
univoca ma è appannaggio dei singoli stati.
Secondo Recchi, (ndr: e
come potrebbe essere altrimenti?), le preoccupazioni degli ambientalisti sono
immotivate. Ma proprio le pressioni ambientaliste, unite a quelle delle grandi lobby
degli agricoltori, finiranno per pesare più dell’obiettivo dell’autosufficienza
energetica, impedendo di fatto lo sviluppo di questa tecnologia anche sul
vecchio continente.
Di fatto, la Francia, che avrebbe
ingenti risorse di shale gas, ne ha proibito lo sfruttamento. In Germania e
Olanda le pressioni contrarie dell’opinione pubblica ne stanno contrastando lo
sviluppo e una situazione non dissimile si sta verificando anche in Spagna e Bulgaria.
La Polonia, unico paese dove per
il momento questo tipo di problemi non ci sarebbe, ne ha invece un altro: la
mancanza di un’adeguata rete di distribuzione del gas unita all’incertezza
sulla qualità geologica dei suoi giacimenti.
L’unico paese in Europa che oggi si
sta realmente attrezzando allo shale gas sembra essere il Regno Unito.
Ma le incertezze restano anche
sul piano della fattibilità commerciale dell’estrazione in territorio europeo.
Tuttavia, continua Recchi, anche se lo sviluppo di questa tecnologia in Europa
dovesse valere una frazione di quella americana, nondimeno rappresenterebbe un
contributo prezioso alla nostra economia. In realtà, gli ostacoli, per stessa
ammissione dell’autore, sono vari. In Europa ad oggi non ci sono paesi in
possesso contemporaneamente di tutti i requisiti che hanno consentito lo
sviluppo dello shale gas come in USA. In nessun paese europeo infatti
sussistono contemporanee condizioni di abbondanza di acqua, di esperienza
diffusa nel campo estrattivo petrolifero, e facilità di accesso ai terreni (il
diritto di proprietà del sottosuolo da noi appartiene allo Stato e non al
singolo proprietario dei terreni come appunto in USA) e soprattutto è carente
un forte impegno politico su questi obiettivi.
Per Recchi un grosso peso sta
avendo anche la disinformazione promossa dai gruppi ambientalisti a livello
europeo. A suo dire, l’allarme ambientale sollevato non ha ragion d’essere,
visto lo stadio avanzato raggiunto negli Stati Uniti da questa tecnologia. Ciò
che Recchi riconosce come limite principale della tecnica del fracking è la
necessità di utilizzo di grandi quantità di acqua. Oggi, in media, occorrono
circa 4 litri di acqua per produrre circa 15 metri cubi di gas. A quest’acqua
poi vanno aggiunti addittivi chimici con evidenti rischi d’inquinamento che
però sarebbero arginati dal fatto che l’acqua utilizzata per il processo non
viene dispersa, ma recuperata per poi essere filtrata e riconvertita al suo
stato originale.
Resta il fatto che la rivoluzione
dello shale gas in USA ha funzionato perché si è rivelata un gioco win-win: ne
guadagnano l’impresa petrolifera, il proprietario del terreno ed anche lo Stato
attraverso le entrate fiscali e l’effetto dei prezzi più bassi dell’energia.
Per non parlare dell’effetto sull’occupazione, che cresce.
E l’Europa, secondo Recchi, ha un
altro problema: quello rappresentato dai sussidi alle energie rinnovabili che,
paradossalmente, oggi ne mettono in crisi il mercato economico.
Gli Europei pagano il prezzo più
alto al mondo per l’elettricità, in parte anche a causa di costosissimi sussidi
alle energie rinnovabili corrisposti attraverso supplementi sulla bolletta
elettrica. E tuttavia le emissioni da energia elettrica non diminuiscono più.
Com’è possibile? Si tratta della risultante di più fattori: la marcia forzata
verso le rinnovabili, la recessione economica e il crescente ricorso al
carbone. Oggi infatti le aziende europee stanno importando grandi quantità di
carbone a prezzi bassissimi, malgrado sia la fonte più sporca, proprio perché resta
la più economicamente conveniente.
Il consumo di elettricità
prodotta da gas nel 2013 in Europa è sceso del 30% rispetto al 2008, con punte
che in Italia hanno toccato il 37%. Mentre le centrali elettriche a carbone
marciano a pieno regime. In Germania, a causa dell’incremento nell’uso del
carbone, le emissioni di gas serra sono aumentate nel 2011-2012, anziché
diminuire. In Italia, invece, abbiamo un altro problema: solo nel 2012 abbiamo
speso oltre 10 miliardi di euro in incentivi alle fonti rinnovabili che sono
andati a costituire il 18% in media delle bollette elettriche di ciascuna
famiglia.
Mentre dunque gli Stati Uniti
marciano verso prezzi energetici più bassi, grazie alla scoperta dello shale
gas, l’Europa sta andando esattamente nella direzione opposta. Di conseguenza
la competitività industriale europea rispetto a quella americana sta subendo un
netto deterioramento.
Come procedere, allora?
Secondo Recchi è indispensabile
attuare una solida strategia energetica partendo dalla correzione delle misure
rivelatesi distorsive a favore delle rinnovabili. Egli, sia pur molto
sinteticamente, accenna all’importanza di dirottare quote maggiori d’incentivi
verso le rinnovabili termiche
(caldaie a biomassa, pompe di calore, ecc.) In secondo luogo si dovrebbe
incoraggiare lo sfruttamento dello shale gas anche sul territorio europeo
adottando una revisione delle norme che lo agevoli. In Italia, ad esempio, la
cosiddetta Sindrome di Nimby (Not in
my backyard, non nel mio giardino) ha bloccato molti progetti di sfruttamento
di gas e petrolio. Sempre secondo Recchi, se anche noi italiani adottassimo a
riguardo un approccio simile a quello dell’Inghilterra o della Norvegia,
potremmo raddoppiare la produzione e soddisfare circa il 20% del consumo
nazionale. Dobbiamo poi sicuramente procedere a sforzi importanti verso una
maggiore efficienza energetica.
Vi è, per fortuna, nel testo una
chiara ammissione del problema principale: le fonti fossili, che oggi
continuano a rappresentare la principale risorsa energetica, sono anche la più
inquinante. E per Recchi non esistono soluzioni applicabili nell’immediato che
possano risolvere la questione rapidamente. “Anche chi utilizza un veicolo elettrico, ad esempio, non può non
considerare il fatto che oggi l’elettricità prodotta in Italia è generata per
il 70% da centrali alimentate con idrocarburi e solo per il 10% da pannelli
solari e pale eoliche. I derivati del petrolio sono ovunque: pensiamo, ad
esempio, alla bottiglietta del nostro shampoo, fatta in plastica (derivato del
petrolio), lo stesso nostro shampoo è fatto in larga misura da composti
petrolchimici. Se facessimo la somma di tutti i derivati del greggio che
utilizziamo, consapevolmente o meno, e che servono a tenere “accesa” la nostra
società civile, ne deriverebbe che, solo in Italia, consumiamo mediamente 21
barili al giorno ogni 1.000 abitanti: poco più di 3 litri di petrolio al giorno
per persona. A livello globale tutte le fonti alternative agli idrocarburi
messe insieme – eolico, solare, nucleare, ecc. – contano secondo l’Agenzia
internazionale per l’Energia dell’Ocse, per meno di un terzo dell’elettricità
generata nel mondo”.
Gli idrocarburi restano dunque al
momento un ingrediente base della nostra civiltà, anche se sono un ingrediente
molto contestato. Recchi riconosce ad una parte del mondo ambientalista la
genuina preoccupazione per la sopravvivenza del nostro ecosistema giungendo ad
analizzare il problema del rischio di modifica delle condizioni climatiche del
pianeta a causa dell’attività dell’uomo. Sono ormai in molti, egli sostiene, a
ritenere indispensabile un cambiamento del nostro stile di vita, del nostro
modello di consumo a favore di scelte più ecocompatibili.
Purtroppo però il problema,
secondo Recchi, non è più se possiamo o no fare a meno del petrolio e degli
idrocarburi. E’ grazie a loro se oggi per sette miliardi di persone su questo
pianeta è possibile alimentarsi, vestirsi, curarsi e spostarsi. Se decidessimo
di farne a meno dovremmo dire addio all’industria e al commercio e quindi,
tutta o quasi la produzione di beni e servizi dovrebbe svolgersi nelle
vicinanze di casa. La strategia più pratica, oggi, per proteggere il pianeta
resta quella di concentrarsi sulla riduzione
degli sprechi e sull’aumento
dell’efficienza.
Recchi infine evidenzia anche
un'altra questione, allorchè afferma che il problema del riscaldamento
dell’atmosfera della Terra è un problema globale e che gli sforzi dell’Europa
possono servire relativamente a poco per risolverlo se resteranno isolati.
Anche se in Europa riuscissimo a diminuire le nostre emissioni del 20% entro il
2020, questo servirebbe a poco se in India e in Cina le emissioni continuassero
a crescere in maniera esponenziale.
Resta invece la ferma convinzione
del Presidente ENI che l’obiettivo dell’efficienza energetica possa essere un
fattore trainante anche per l’economia oltre che per l’ambiente. L’efficienza
risulta positiva in tutti i sensi, egli conclude: ” essa può diminuire i danni all’atmosfera ma anche far risparmiare
denaro che potrebbe essere speso per migliorare le condizioni di vita della
popolazione accrescendo al contempo la sicurezza energetica e diminuendo le
importazioni di energia”.
Naturalmente non tutto quanto
sostiene Recchi è da me personalmente condiviso. Resta difficile considerare
del tutto disinteressate certe affermazioni da parte del presidente di uno dei
principali colossi energetici mondiali. Considero un po’ demagogico parlare di
7 miliardi di abitanti del pianeta che hanno raggiunto un buon tenore di vita
grazie all’uso degli idrocarburi. Almeno un miliardo di persone continua a
morire di fame, e vive in assenza di luce e acqua nelle proprie abitazioni, o
no? Ritengo però che il tema dello shale gas in Europa dovrebbe comunque essere
affrontato senza preconcetti anche perché, pur trattandosi sempre di un combustibile
fossile, esso è sicuramente meno impattante specie se paragonato al carbone, in
termini di emissioni prodotte; condivido anche il pensiero di Recchi in merito
alle scelte politiche europee in tema di energia e soprattutto la sua
considerazione che a ben poco serviranno le scelte di abbattere le emissioni
sul territorio europeo se poi nel resto del mondo tali vincoli non saranno
altrettanto condivisi e rispettati.
Questi ultimi punti sono anche
gli argomenti più comunemente utilizzati da larga parte del mondo ambientalista
per attaccare il mondo dei produttori della cosidetta “energia sporca”. Ritengo
di conoscere abbastanza bene una parte di quel mondo ambientalista che agisce talvolta
condizionato più dall’ideologia che da convinzioni supportate scientificamente.
Quel mondo ambientalista che ad esempio si oppone ai termovalorizzatori, che si
ostina a dire di no a tutto e dunque no, a prescindere, anche allo shale gas,
senza probabilmente mai aver cercato di approfondire il tema, che ha la
presunzione di essere l’unico depositario del sapere e della verità e che
considera ancora il mondo diviso tra buoni e cattivi, come nei vecchi film
western.
Viviamo una realtà estremamente
complessa e destinata a complicarsi probabilmente sempre più; questa è una
ragione, più che sufficiente, perché si debba avere il coraggio di confrontarci
con tutti anche e soprattutto con chi, ufficialmente, si colloca dall’altra
parte della barricata.
Michele Salvadori
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