lunedì 7 aprile 2014

"Nuove energie" di Giuseppe Recchi

Il mondo ambientalista e quello dei produttori delle cosiddette “energie sporche” rappresentano realmente due mondi contrapposti, le cui idee e prospettive sono e resteranno per sempre inconciliabili? Ho voluto, questa volta, cercare di capire il punto di vista di qualcuno che certo non appartiene alla corrente ambientalista.

Giuseppe Recchi, presidente ENI, sesto gruppo petrolifero mondiale, è l’autore di questo breve testo, dal titolo “Nuove Energie- le sfide per lo sviluppo dell’Occidente” (Marsilio Editore, €. 13,00).
Ho innanzitutto apprezzato il tono divulgativo con cui è scritto il testo che consente di avvicinarsi a tematiche complesse come quella dell’utilizzo dell’energia anche a chi, come il sottoscritto, non ne è un esperto, ed anche la sua concisione, (appena 160 pagine), che non spaventa un lettore medio che spesso, di fronte a volumi della consistenza volumetrica e del peso dei mattoni, giustamente viene scoraggiato in partenza.

“La storia dell’energia è la storia del mondo”, recita l’incipit dei questo libro. Come non dargli ragione.
Il presidente dell’ENI ripercorre innanzitutto la storia dello sfruttamento delle fonti energetiche da parte dell’uomo a cominciare dall’utilizzo dell’olio di balena come principale fonte utilizzata per l’illuminazione e giunge poi a narrare la storia della perforazione dei primi pozzi petroliferi a metà dell’Ottocento, proprio alla ricerca di una fonte alternativa a quella fornita da balene e Capodogli, il cui numero stava repentinamente diminuendo a causa dell’intensificazione della caccia da parte dell’uomo.

Uno dei primi obiettivi di Recchi sembra essere quello di distruggere la teoria del picco di Hubbert, dal nome del geofisico americano M.K.Hubbert che ipotizzava che la produzione mondiale di petrolio si sarebbe progressivamente esaurita. Per anni, ci spiega Recchi, siamo stati convinti di essere vicinissimi al picco del petrolio ed in parte le previsioni si avverarono, se è vero che tra il 1970 e il 1971 negli USA il picco fu raggiunto sul serio. Secondo la quasi totalità degli esperti avremmo poi dovuto raggiungere il picco del petrolio a livello globale attorno alla metà degli anni ottanta. Addirittura il “Club di Roma” aveva previsto che attorno al 2000 la produzione del petrolio si sarebbe dimezzata. Per la cronaca, la produzione di greggio nel 2000 è risultata essere superiore del 25% rispetto a quella degli anni ottanta.
Questo grossolano errore di previsione secondo l’autore si è verificato per gli scarsi dati informativi a disposizione degli scienziati al momento di formulare le loro teorie e per non aver considerato che i progressi della scienza e della tecnologia avrebbero, come di fatto si è poi verificato, consentito nuove metodologie estrattive più efficaci ed efficienti e l’individuazione di riserve di idrocarburi in aree ancora non esplorate. In ultima analisi, l’unica risorsa davvero inesauribile - questa la tesi di Recchi - è la creatività dell’uomo che nei momenti di difficoltà spesso riesce a trovare strade alternative all’inizio impensabili.
La teoria del “peak oil” è dunque ormai screditata. Recchi afferma che le attuali stime parlano di disponibilità di petrolio e suoi derivati per almeno altri 180 anni. Tuttavia lo stesso Recchi ammette pure che non è affatto detto che sarà ancora il petrolio, nei prossimi cento e passa anni, ad avere un ruolo cruciale in campo energetico. Le stime dell’International Energy Outlook 2013 parlano, tra l’altro, di un incremento del consumo di energia nei prossimi trent’anni di circa il 56%.

Come affrontare il problema, allora?

Anche per Recchi, come per molti addetti ai lavori, la prima soluzione è l’enorme potenziale rappresentato dalla cosiddetta “rivoluzione non convenzionale” dello Shale Gas. Com’è noto, quando parliamo di shale gas ci riferiamo all’estrazione di gas naturale o di petrolio da rocce particolari: gli scisti argillosi, ricchi, in particolare, di gas metano. Il fenomeno era noto da tempo; quello che non avevamo era la tecnologia adatta all’estrazione. Dieci anni fa, George P. Mitchell ha rivoluzionato le tecniche di estrazione del gas con il sistema di fratturazione, detto fracking, che sfrutta la pressione di un fluido – in genere acqua – per creare e poi propagare una frattura in uno strato roccioso.
La portata di questo sistema estrattivo è enorme. Ancora nel 2000 negli USA lo shale gas rappresentava appena l’1% del gas naturale consumato. Al 2012 era già al 25% e si stima che nel 2030 la quota avrà superato il 50%. Nel giro di pochi anni gli USA non solo raggiungeranno l’autosufficienza ma addirittura diverranno esportatori di LNG (gas naturale liquefatto).

Aree del pianeta con maggiore presenza di Gas di argille
Per il momento, la rivoluzione dello shale gas noi europei la osserviamo da lontano. Secondo alcune stime, in Europa ci sono giacimenti di shale gas per 13 mila miliardi di metri cubi. Tuttavia Recchi non è ottimista sulla possibilità che anche nel nostro continente si verifichi un’equivalente rivoluzione energetica analoga a quella che sta avvenendo negli USA, non tanto per ragioni geologiche quanto per ragioni politiche e soprattutto perché la politica energetica in Europa non è univoca ma è appannaggio dei singoli stati.

Secondo Recchi, (ndr: e come potrebbe essere altrimenti?), le preoccupazioni degli ambientalisti sono immotivate. Ma proprio le pressioni ambientaliste, unite a quelle delle grandi lobby degli agricoltori, finiranno per pesare più dell’obiettivo dell’autosufficienza energetica, impedendo di fatto lo sviluppo di questa tecnologia anche sul vecchio continente.
Di fatto, la Francia, che avrebbe ingenti risorse di shale gas, ne ha proibito lo sfruttamento. In Germania e Olanda le pressioni contrarie dell’opinione pubblica ne stanno contrastando lo sviluppo e una situazione non dissimile si sta verificando anche in Spagna e Bulgaria.
La Polonia, unico paese dove per il momento questo tipo di problemi non ci sarebbe, ne ha invece un altro: la mancanza di un’adeguata rete di distribuzione del gas unita all’incertezza sulla qualità geologica dei suoi giacimenti.
L’unico paese in Europa che oggi si sta realmente attrezzando allo shale gas sembra essere il Regno Unito.

Ma le incertezze restano anche sul piano della fattibilità commerciale dell’estrazione in territorio europeo. Tuttavia, continua Recchi, anche se lo sviluppo di questa tecnologia in Europa dovesse valere una frazione di quella americana, nondimeno rappresenterebbe un contributo prezioso alla nostra economia. In realtà, gli ostacoli, per stessa ammissione dell’autore, sono vari. In Europa ad oggi non ci sono paesi in possesso contemporaneamente di tutti i requisiti che hanno consentito lo sviluppo dello shale gas come in USA. In nessun paese europeo infatti sussistono contemporanee condizioni di abbondanza di acqua, di esperienza diffusa nel campo estrattivo petrolifero, e facilità di accesso ai terreni (il diritto di proprietà del sottosuolo da noi appartiene allo Stato e non al singolo proprietario dei terreni come appunto in USA) e soprattutto è carente un forte impegno politico su questi obiettivi.

Per Recchi un grosso peso sta avendo anche la disinformazione promossa dai gruppi ambientalisti a livello europeo. A suo dire, l’allarme ambientale sollevato non ha ragion d’essere, visto lo stadio avanzato raggiunto negli Stati Uniti da questa tecnologia. Ciò che Recchi riconosce come limite principale della tecnica del fracking è la necessità di utilizzo di grandi quantità di acqua. Oggi, in media, occorrono circa 4 litri di acqua per produrre circa 15 metri cubi di gas. A quest’acqua poi vanno aggiunti addittivi chimici con evidenti rischi d’inquinamento che però sarebbero arginati dal fatto che l’acqua utilizzata per il processo non viene dispersa, ma recuperata per poi essere filtrata e riconvertita al suo stato originale.
Resta il fatto che la rivoluzione dello shale gas in USA ha funzionato perché si è rivelata un gioco win-win: ne guadagnano l’impresa petrolifera, il proprietario del terreno ed anche lo Stato attraverso le entrate fiscali e l’effetto dei prezzi più bassi dell’energia. Per non parlare dell’effetto sull’occupazione, che cresce.
E l’Europa, secondo Recchi, ha un altro problema: quello rappresentato dai sussidi alle energie rinnovabili che, paradossalmente, oggi ne mettono in crisi il mercato economico.

Gli Europei pagano il prezzo più alto al mondo per l’elettricità, in parte anche a causa di costosissimi sussidi alle energie rinnovabili corrisposti attraverso supplementi sulla bolletta elettrica. E tuttavia le emissioni da energia elettrica non diminuiscono più. Com’è possibile? Si tratta della risultante di più fattori: la marcia forzata verso le rinnovabili, la recessione economica e il crescente ricorso al carbone. Oggi infatti le aziende europee stanno importando grandi quantità di carbone a prezzi bassissimi, malgrado sia la fonte più sporca, proprio perché resta la più economicamente conveniente.
Il consumo di elettricità prodotta da gas nel 2013 in Europa è sceso del 30% rispetto al 2008, con punte che in Italia hanno toccato il 37%. Mentre le centrali elettriche a carbone marciano a pieno regime. In Germania, a causa dell’incremento nell’uso del carbone, le emissioni di gas serra sono aumentate nel 2011-2012, anziché diminuire. In Italia, invece, abbiamo un altro problema: solo nel 2012 abbiamo speso oltre 10 miliardi di euro in incentivi alle fonti rinnovabili che sono andati a costituire il 18% in media delle bollette elettriche di ciascuna famiglia.

Mentre dunque gli Stati Uniti marciano verso prezzi energetici più bassi, grazie alla scoperta dello shale gas, l’Europa sta andando esattamente nella direzione opposta. Di conseguenza la competitività industriale europea rispetto a quella americana sta subendo un netto deterioramento.

Come procedere, allora?

Secondo Recchi è indispensabile attuare una solida strategia energetica partendo dalla correzione delle misure rivelatesi distorsive a favore delle rinnovabili. Egli, sia pur molto sinteticamente, accenna all’importanza di dirottare quote maggiori d’incentivi verso le rinnovabili termiche (caldaie a biomassa, pompe di calore, ecc.) In secondo luogo si dovrebbe incoraggiare lo sfruttamento dello shale gas anche sul territorio europeo adottando una revisione delle norme che lo agevoli. In Italia, ad esempio, la cosiddetta Sindrome di Nimby (Not in my backyard, non nel mio giardino) ha bloccato molti progetti di sfruttamento di gas e petrolio. Sempre secondo Recchi, se anche noi italiani adottassimo a riguardo un approccio simile a quello dell’Inghilterra o della Norvegia, potremmo raddoppiare la produzione e soddisfare circa il 20% del consumo nazionale. Dobbiamo poi sicuramente procedere a sforzi importanti verso una maggiore efficienza energetica.

Vi è, per fortuna, nel testo una chiara ammissione del problema principale: le fonti fossili, che oggi continuano a rappresentare la principale risorsa energetica, sono anche la più inquinante. E per Recchi non esistono soluzioni applicabili nell’immediato che possano risolvere la questione rapidamente. “Anche chi utilizza un veicolo elettrico, ad esempio, non può non considerare il fatto che oggi l’elettricità prodotta in Italia è generata per il 70% da centrali alimentate con idrocarburi e solo per il 10% da pannelli solari e pale eoliche. I derivati del petrolio sono ovunque: pensiamo, ad esempio, alla bottiglietta del nostro shampoo, fatta in plastica (derivato del petrolio), lo stesso nostro shampoo è fatto in larga misura da composti petrolchimici. Se facessimo la somma di tutti i derivati del greggio che utilizziamo, consapevolmente o meno, e che servono a tenere “accesa” la nostra società civile, ne deriverebbe che, solo in Italia, consumiamo mediamente 21 barili al giorno ogni 1.000 abitanti: poco più di 3 litri di petrolio al giorno per persona. A livello globale tutte le fonti alternative agli idrocarburi messe insieme – eolico, solare, nucleare, ecc. – contano secondo l’Agenzia internazionale per l’Energia dell’Ocse, per meno di un terzo dell’elettricità generata nel mondo”.

Gli idrocarburi restano dunque al momento un ingrediente base della nostra civiltà, anche se sono un ingrediente molto contestato. Recchi riconosce ad una parte del mondo ambientalista la genuina preoccupazione per la sopravvivenza del nostro ecosistema giungendo ad analizzare il problema del rischio di modifica delle condizioni climatiche del pianeta a causa dell’attività dell’uomo. Sono ormai in molti, egli sostiene, a ritenere indispensabile un cambiamento del nostro stile di vita, del nostro modello di consumo a favore di scelte più ecocompatibili.

Purtroppo però il problema, secondo Recchi, non è più se possiamo o no fare a meno del petrolio e degli idrocarburi. E’ grazie a loro se oggi per sette miliardi di persone su questo pianeta è possibile alimentarsi, vestirsi, curarsi e spostarsi. Se decidessimo di farne a meno dovremmo dire addio all’industria e al commercio e quindi, tutta o quasi la produzione di beni e servizi dovrebbe svolgersi nelle vicinanze di casa. La strategia più pratica, oggi, per proteggere il pianeta resta quella di concentrarsi sulla riduzione degli sprechi e sull’aumento dell’efficienza.

Recchi infine evidenzia anche un'altra questione, allorchè afferma che il problema del riscaldamento dell’atmosfera della Terra è un problema globale e che gli sforzi dell’Europa possono servire relativamente a poco per risolverlo se resteranno isolati. Anche se in Europa riuscissimo a diminuire le nostre emissioni del 20% entro il 2020, questo servirebbe a poco se in India e in Cina le emissioni continuassero a crescere in maniera esponenziale.
Resta invece la ferma convinzione del Presidente ENI che l’obiettivo dell’efficienza energetica possa essere un fattore trainante anche per l’economia oltre che per l’ambiente. L’efficienza risulta positiva in tutti i sensi, egli conclude: ” essa può diminuire i danni all’atmosfera ma anche far risparmiare denaro che potrebbe essere speso per migliorare le condizioni di vita della popolazione accrescendo al contempo la sicurezza energetica e diminuendo le importazioni di energia”.

Naturalmente non tutto quanto sostiene Recchi è da me personalmente condiviso. Resta difficile considerare del tutto disinteressate certe affermazioni da parte del presidente di uno dei principali colossi energetici mondiali. Considero un po’ demagogico parlare di 7 miliardi di abitanti del pianeta che hanno raggiunto un buon tenore di vita grazie all’uso degli idrocarburi. Almeno un miliardo di persone continua a morire di fame, e vive in assenza di luce e acqua nelle proprie abitazioni, o no? Ritengo però che il tema dello shale gas in Europa dovrebbe comunque essere affrontato senza preconcetti anche perché, pur trattandosi sempre di un combustibile fossile, esso è sicuramente meno impattante specie se paragonato al carbone, in termini di emissioni prodotte; condivido anche il pensiero di Recchi in merito alle scelte politiche europee in tema di energia e soprattutto la sua considerazione che a ben poco serviranno le scelte di abbattere le emissioni sul territorio europeo se poi nel resto del mondo tali vincoli non saranno altrettanto condivisi e rispettati.

Questi ultimi punti sono anche gli argomenti più comunemente utilizzati da larga parte del mondo ambientalista per attaccare il mondo dei produttori della cosidetta “energia sporca”. Ritengo di conoscere abbastanza bene una parte di quel mondo ambientalista che agisce talvolta condizionato più dall’ideologia che da convinzioni supportate scientificamente. Quel mondo ambientalista che ad esempio si oppone ai termovalorizzatori, che si ostina a dire di no a tutto e dunque no, a prescindere, anche allo shale gas, senza probabilmente mai aver cercato di approfondire il tema, che ha la presunzione di essere l’unico depositario del sapere e della verità e che considera ancora il mondo diviso tra buoni e cattivi, come nei vecchi film western.

Viviamo una realtà estremamente complessa e destinata a complicarsi probabilmente sempre più; questa è una ragione, più che sufficiente, perché si debba avere il coraggio di confrontarci con tutti anche e soprattutto con chi, ufficialmente, si colloca dall’altra parte della barricata.


Michele Salvadori

Nessun commento: