Ormai da oltre una decina di anni mi muovo in lungo e in largo per l’Italia. Causa il tipo di lavoro che svolgo sono costretto ad utilizzare come mezzo di trasporto un’auto con la quale compio migliaia di chilometri viaggiando in ogni stagione ed in ogni condizione meteo. Ho potuto sperimentare di persona e più volte cosa significa il cambiamento climatico e come negli ultimi anni si sia verificata una accelerazione verso un’instabilità metereologica sempre più contraddistinta da fenomeni di estrema violenza. Mai come negli ultimi anni e con frequenza purtroppo sempre crescente, ho dovuto affrontare in auto piogge torrenziali quanto improvvise, bombe d’acqua, trombe d’aria e via dicendo, in ogni stagione ed in ogni zona d’Italia.
Ormai partire da casa per un viaggio di lavoro contempla
inevitabilmente prendere in seria considerazione le previsioni metereologiche
prima di ogni altra cosa ed agire di conseguenza. Se un tempo prima della
partenza mi sentivo dire da mia moglie la consueta frase: “Mi raccomando, vai
piano, sii prudente”. Ora la prima questione è diventata: “Che tempo farà nei
prossimi giorni in Liguria? In Veneto? E in Campania?”.
Il cambiamento climatico in atto ai mei occhi è talmente
evidente e mi procura così tanta ansia alla vigilia di ogni mia trasferta che
sinceramente fatico a comprendere come ci siano ancora molti che ne sostengono
l’inesistenza e, di conseguenza, non sembrano preoccuparsi di quanto stia
avvenendo.
Per questo ho letto con grande interesse “La sfida di
Gaia”, titolo del saggio edito da Meltemi che raccoglie otto conferenze del
filosofo e antropologo francese, Bruno Latour attraverso le quali egli
tenta di abbattere i muri che ancora separano i saperi scientifico e umanistico
provando a dare un contributo anche da parte del mondo della filosofia alla
causa della sostenibilità ambientale.
Premetto che a differenza della gran parte delle altre opere
che ho commentato su questo blog - tutte più o meno accomunate da intenti
divulgativi e di più semplice presa - stavolta il contenuto di questo saggio è
di complessità superiore e probabilmente di non facile comprensione per
chiunque. Io almeno ho faticato non poco nell’affrontare alcuni passaggi di
questo libro sui quali mi sono dovuto soffermare più a lungo del solito per
comprenderne il significato. Ciononostante credo che ogni tanto ci si debba
cimentare anche con testi superiori alle nostre capacità per compiere dei passi
in avanti.
Bruno Latour parte proprio dalla domanda che in tanti ci
poniamo quotidianamente. Fenomeni quali innalzamento del livello dei mari,
scomparsa dei ghiacciai, innalzamento dei livelli di CO2, aumento delle temperature (sembra che il
2020 sia stato l’anno più caldo di sempre), acidificazione degli oceani,
scomparsa delle specie animali, tutto conferma che stiamo vivendo una profonda
crisi ecologica. Eppure, una consistente fetta della società continua a non
dare segni di preoccuparsi di certi fenomeni quasi che questi fossero eventi
che non la riguardano. Com’è possibile?
L’analisi di Bruno Latour è incentrata innanzitutto a
trovare le cause principali a questa sorta d’indifferenza semi collettiva che
contraddistingue una parte della nostra società.
A parere di Latour la refrattarietà da parte di parte
dell’umanità a reagire alle conseguenze della crisi climatica è frutto di una
realtà ormai estremamente complessa nella quale viviamo. Ma per il filosofo
francese siamo giunti a questa situazione anche a causa di un mancato dialogo
tra i vari saperi. Nell’ultimo mezzo secolo, le voci inascoltate degli
scienziati avrebbero avuto probabilmente maggiore eco se a recepirle non ci fossero
stati solamente i loro colleghi di altre discipline tecnico-scientifiche, ma
gli umanisti, quei filosofi, sociologi e antropologi in grado di valutare gli
impatti della crisi ecologica sugli esseri umani.
Latour parte dall’analisi di una delle teorie cardine della
scienza ambientale ovvero dall’ “Ipotesi Gaia” di James
Lovelock, già commentata anche dal sottoscritto su questo blog. Alla
fine degli anni Settanta, Lovelock ipotizza l’idea che gli oceani, i mari,
l'atmosfera, la crosta terrestre e tutte le altre componenti geofisiche del
pianeta Terra si mantengano in condizioni idonee alla presenza della vita
proprio grazie al comportamento e all'azione di tutti quegli organismi che
concorrono a formarla; la Terra (Gaia, appunto) è, secondo lo scienziato inglese,
un unico organismo vivente capace di autoregolarsi e di rispondere a tutti quei
fattori nuovi e avversi che ne turbano gli equilibri naturali. La materia
vivente non rimane passiva di fronte a ciò che minaccia la sua esistenza.
Latour inizia con una provocazione: la rivoluzione auspicata
dalle menti progressiste si è già realizzata, non per l’auspicato cambiamento
nella proprietà dei mezzi di produzione, ma per un’accelerazione nel movimento
del ciclo del carbonio. I mari si riscaldano, l’acidità degli oceani è in
costante crescita, quali che siano le strategie di resilienza nell’immediato
futuro faremo i conti con tutti i tipping points che sono stati superati da
tempo. Siamo nell’età delle conseguenze. Per chi non lo avesse ben chiaro:
nell’età delle conseguenze dell’attività umana.
Secondo Latour parte della società resta insensibile alle
questioni ecologiche, appare indifferente quasi che quest’ultime non la
coinvolgessero direttamente proprio perché contrariamente a quanto teorizzato
da Lovelock, questa parte di società sente, erroneamente, di non appartenere
più a Gaia, di non fare più parte dello stesso “mondo” fisico.
“Andare a dire agli occidentali che il tempo è finito,
che il loro mondo è giunto al termine, che è necessario un cambiamento del loro
stile di vita, non può che suscitare un sentimento di totale incomprensione poiché,
per loro, l’apocalisse è già avvenuta.” A parere di Latour i cosiddetti
scettici del clima reputano degli svitati, delle moderne “Cassandre” i profeti
di sventura del cambiamento climatico.
Ciò avviene, secondo Latour, “in un momento in cui la
figura dell’umano non è mai apparsa così inadatta a tenerne conto”, un
contesto storico in cui “siamo alfine riusciti a universalizzare su tutta la
superficie della Terra lo stesso umanoide economizzatore e calcolatore”. Da una parte c’è l’homo oeconomicus, dedito
solo alla cura dei propri interessi individuali ed incarnazione del capitale,
dall’altra Gaia.
In un Pianeta egemonizzato e omogeneizzato dall’economia, la
presenza dell’umano è ovunque, così come la sua relazione con ciò che una volta
era considerato naturale, eppure la centralità assunta da Gaia continua a
essere percepita da una parte minoritaria di coloro che hanno accesso alla
conoscenza:
“Avete sicuramente notato che gli individui che rimangono
insensibili alle crisi ecologiche sono molto suscettibili su tutte le questioni
di morale come di identità e pronti a scendere in piazza quando i loro
interessi sono minacciati. Se hanno scelto di essere negligenti è solo nei
confronti di esseri che appartengono al regno della ‘natura’”.
Ma, al contrario, a parere di Latour l’unica possibilità che
abbiamo per allontanarci dall’Apocalisse che altrimenti ci attende sarà proprio
tornare a percorrere la strada del linguaggio apocalittico, convincere questi “scettici”
dell’immutato radicamento dell’essere umano alla Terra.
“Gaia è un’ingiunzione a rimaterializzare l’appartenenza al
mondo”.
Nella parte finale del saggio Latour afferma con forza
l’anacronismo di istanze sostenute dagli Stati-nazione e la necessità di dar
voce a Gaia: “La finzione non risiede nel dare voce all’acqua, ma nel
credere che si possa fare a meno di rappresentarla con una voce umana, capace
di farsi comprendere da altri umani”.
La scienza dell’Economia ha depotenziato gli Stati, li ha
privati della capacità di garantire la difesa ai propri soggetti:
“Il fallimento della lotta dello Stato contro le
mondializzazioni successive non l’ha preparato affatto a tenere conto di questa
nuova forma di mondializzazione da parte della Terra stessa. Nell’epoca
dell’Antropocene lo Stato sovrano si ritrova quindi affetto da obsolescenza,
proprio nel momento in cui la mondializzazione planetaria diviene
letteralmente, e non più figurativamente, il pianeta”.
Michele Salvadori