“Perché dovrei preoccuparmi dei posteri? I posteri si sono mai preoccupati di me?” Il problema del sovracconsumo delle nostre risorse potremmo in effetti anche liquidarlo con questa celebre battuta di Groucho Marx. Il punto, invece serissimo, è che parte di noi oggi sta prendendo alla lettera questa frase.
Eppure già Plinio il Vecchio vaticinava: “Le cose che ci rovinano e ci conducono agli inferi sono quelle che essa (la Terra) ha nascosto nel suo seno, cose che non si generano in un momento… Quanto innocente, quanto felice, anzi perfino raffinata sarebbe la nostra vita, se non altrove volgesse le sue brame, ma solo a ciò che si trova sulla superficie terrestre!”
Il nuovo libro di Serge Latouche - ormai considerato il guru della filosofia della decrescita - dal titolo “Come si esce dalla società dei consumi” (Ediz. Bollati-Boringhieri pp. 205, €. 16,00), ribadisce e sintetizza quanto espresso nelle sue precedenti pubblicazioni sul tema (La scommessa della decrescita e Breve trattato sulla decrescita serena), sia rispondendo alle critiche nel frattempo giuntegli anche da una parte del mondo ambientalista, sia ripercorrendo a ritroso il pensiero dei principali studiosi delle teorie sulla sostenibilità dagli anni ’60 del secolo scorso ad oggi.
Latouche parte da un assunto ormai noto: la società dei consumi di massa è arrivata ad un vicolo cieco. E’ una società che ha la sua base – anzi la sua essenza – nella crescita senza limiti, mentre i dati fisici, geologici e biologici le impediscono di proseguire su quella strada, data la finitezza del pianeta. Secondo Latouche è ormai troppo tardi per porre rimedio ai nostri comportamenti. “Anche se riducessimo la nostra impronta ecologica ad un livello sostenibile, avremmo comunque un innalzamento della temperatura di due gradi entro la fine del secolo. Ormai il problema non è quello di evitare la catastrofe, ma solo di limitarla, e soprattutto di domandarsi come gestirla.”
In questo testo, scritto con un linguaggio accessibile e dal tono divulgativo, l’autore cerca intanto di ricostruire le varie fasi che hanno portato allo sviluppo del consumismo partendo dal lontano 1750 con la nascita del capitalismo occidentale e dell’economia politica. Dal saggio “Ricchezza delle nazioni” in cui Adam Smith professa che l’arricchimento degli uni finirà per avere ricadute positive su tutti, per arrivare agli anni ’50 del ‘900 con la nascita della società dei consumi, quando il sistema libererà tutto il proprio potenziale creativo e distruttivo attraverso i suoi tre principali pilastri: la pubblicità, che crea instancabilmente il desiderio di consumare; il credito, che fornisce i mezzi per consumare anche a chi non ha denaro; l’obsolescenza programmata, che assicura il rinnovamento obbligato della domanda.
Il modello previsto dal Club di Roma nel famoso rapporto "I limiti dello sviluppo" (1972!) e purtroppo rivelatosi fino ad oggi assai attendibile, colloca la fine della società consumistica tra il 2030 ed il 2070. Il sogno a quel punto - a causa della continua crescita di distruzione del nostro ecosistema - si trasformerà in incubo.
Cosa fare, allora? Come uscirne? Latouche - per rispondere alle principali critiche rivoltegli, che accusano la teoria sulla decrescita di essere un’utopia difficilmente realizzabile in quanto il mondo non può essere fermato e ricondotto all’era post-industriale e che inoltre egli contraddice la stessa filosofia dello sviluppo sostenibile in quanto anche quest’ultimo comunque prevede una crescita vigorosa anche se ecologica - afferma che innanzitutto il suo vuole essere uno slogan provocatorio che evidenzi la necessità di praticare una rottura con una società il cui obiettivo è la crescita per la crescita. “Rompere con la società della crescita - afferma Latouche - non vuol dire sostenere un’altra crescita e neppure un’altra economia, significa uscire dalla crescita e dallo sviluppo, e dunque dall’economia, cioè dall’imperialismo dell’economia, per ritrovare il sociale e il politico.” Per farlo dobbiamo perseguire due nuovi obiettivi: la decolonizzazione dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo possibile.
La cosiddetta “crescita verde” a suo parere è un ossimoro: “Certo, con migliori carburanti si brucia meno petrolio e con lampade a basso consumo si consuma meno energia, ma se si fanno girare i motori per più tempo e si accendono sempre più lampade, il problema non è risolto. Nel migliore dei casi allontaneremo il momento del crollo.” In più, mi permetto di aggiungere, se sempre un maggior numero di persone avrà nei prossimi anni accesso a quelle tecnologie che fino a pochi anni or sono erano di esclusiva pertinenza dei popoli occidentali è indubbio che non potremo andare ancora molto lontani. Se i soli cinesi, (per tacere di indiani e brasiliani), la cui popolazione ammonta ad un miliardo e trecento milioni di persone ambiscono, per altro giustamente, allo stesso tenore di vita di noi occidentali, ma le risorse del pianeta sono sempre le stesse, la fetta di torta da spartire sarà inevitabilmente sempre più piccola.
La soluzione proposta è naturalmente molto articolata e di difficile sintesi (vi rimando alla lettura del libro). Latouche richiama il pensiero di tutti i principali teorici della società del dopo sviluppo, da Geogescu-Roegen, a Illich, a Castoriadis, a Gorz e sostiene come la nostra crisi sia fondamentalmente culturale e di civiltà. Egli si rende conto di quanto sia difficile per noi prendere coscienza del fatto che l’economia è una religione dalla quale dobbiamo per forza di cose affrancarci e ripropone la sua ipotesi societaria ispirata ai principi di sobrietà delle cosiddette “8 R”: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare.
Consapevole dell’impossibilità di realizzare questo profondo processo di trasformazione in tempi brevi, Latouche propone una sorta di società di transizione che dovrà intanto indirizzarsi sui seguenti 10 punti programmatici:
1. Ristabilire un’impronta ecologica sostenibile
2. Ridurre i trasporti internalizzando i costi attraverso ecotasse adeguate
3. Rilocalizzare le attività
4. Ristabilire l’agricoltura contadina
5. Ridistribuire i profitti ricavati dall’aumento di produttività per ridurre il tempo di lavoro e creare occupazione
6. Rilanciare la produzione dei beni relazionali
7. Ridurre gli sprechi di energia di un fattore 4
8. Ridurre sostanzialmente lo spazio pubblicitario
9. Riorientare la ricerca tecnico-scientifica
10. Riappropriarsi del denaro
Tra le soluzioni proposte vi è quella dell’abbandono della moneta unica a vantaggio di singole “monete regionali” (non necessariamente convertibili l’una con l’altra), adottabili in una fascia di popolazione compresa tra le diecimila e il milione di persone che realizzi un buon equilibrio tra efficienza e resilienza (capacità di rigenerarsi) e che potrebbe concretamente contribuire alla nascita di tante bio o eco-regioni. Pensiamo ad esempio all’ importanza strategica che avrebbero anche la sola distribuzione ed il consumo di prodotti a Km. zero ed esclusivamente di carattere stagionale. Sarebbe poi davvero un grande sacrificio per noi rinunciare all’acquisto delle ananas del Costa Rica?
E’ evidente però – Latouche ne è consapevole - che gli interessi in gioco sono enormi e che la sua proposta è destinata ad ottenere scarsa approvazione, almeno per adesso. Si tratta di proporre un modello culturale totalmente nuovo. La società della decrescita dovrà ispirarsi al contrario di quella attuale allo spirito del dono. Si dovrà tentare di sostituire alla mentalità predatrice nei rapporti con la natura, i valori dell’altruismo, della reciprocità, della convivialità e del rispetto dell’ambiente. Secondo la bella metafora di Kenneth Boulding e ripresa da Andrea Segrè nel suo “Lezioni di ecostile” (Ediz. B. Mondadori) - altro interessante testo che mi permetto di suggerire – dovremmo sostituire all’economia del cow-boy, fondata appunto sullo sfruttamento illimitato delle risorse naturali, l’economia del “cosmonauta”, con la Terra concepita come un’unica grande navicella spaziale provvista di riserve limitate, dove l’uomo deve trovare il suo posto come elemento di un sistema ecologico complesso.
Un intero capitolo dell’opera, Serge Latouche lo dedica a quello che egli considera uno dei suoi principali maestri ed ispiratori, Ivan Illich. Secondo Illich la scomparsa della società della crescita non è necessariamente una cattiva notizia. Essendo costretto a vivere diversamente, l’uomo potrà vivere finalmente meglio lavorando e consumando meno secondo la sua teoria della “sussistenza moderna”. In particolare il testo si sofferma ad analizzare il concetto espresso da Illich e definito con il termine di “decolonizzazione dell’immaginario”, uno dei principi cardine - per Latouche - della nuova mentalità, che dovrà contraddistinguere la nuova economia della decrescita. L’uomo dovrà riconcettualizzare, ridefinire, ridimensionare, nell’ottica della decrescita, anche i propri concetti di ricchezza e di povertà. Ad esempio lo sfruttamento delle fonti di energia fossili permette una straordinaria svalorizzazione del lavoro umano con il risultato di una sovrabbondanza artificiale facilmente riscontrabile nei nostri ipermercati. Una delle conseguenze di tutto questo è la cosiddetta banalizzazione delle “meraviglie”. Pensiamo all’utilizzo ormai inflazionato in campo pubblicitario dei superlativi assoluti (altissima, purissima, ecc.) e degli aggettivi quali straordinario, eccezionale, strepitoso, ecc. Quante volte ci capita di leggere sulla locandina che pubblicizza una pellicola appena uscita al cinema: ecco il film dell’anno! Ma quanti film dell’anno ci sono propinati nell’arco di un solo anno… li avete mai contati?!
Latouche riprende poi, e lo fa proprio, anche un altro aspetto del pensiero di Illich, quello di dura critica alla scuola come istituzione. A suo parere il modello educativo proposto oggi è responsabile dell’eliminazione nelle menti dei giovani di quelle difese immunitarie necessarie a resistere al sistema economico. “La maggioranza delle persone – scrive Illich – impara nella scuola non soltanto l’accettazione del proprio destino, ma anche il servilismo”. A riguardo, e a distanza di oltre un ventennio dalle conclusioni di Illich, il bel saggio-provocazione di Paola Mastrocola, “Togliamo il disturbo” (Ediz. Guanda) ne è purtroppo una conferma. Dobbiamo dunque avviare un processo di disintossicazione che deve necessariamente partire proprio dalla scuola. Secondo uno studio realizzato in Belgio nel 2008, su tremila allievi della scuola secondaria (licei, istituti tecnici e professionali) solo il 45% sa cos’è una energia rinnovabile; quasi nove allievi su dieci ignorano le cause del riscaldamento climatico; più del 60% confonde l’effetto serra con il buco nello strato di ozono; non parliamo poi del concetto di impronta ecologica, pressoché ignorato dalla maggioranza degli studenti… Le nuove generazioni si trovano culturalmente disarmate. Su questo punto voglio però in parte dissentire dal pensiero dell'autore. Per ragioni professionali negli ultimi anni ho avuto il piacere e la fortuna di collaborare con un certo numero d'insegnanti di scuola di ogni ordine e grado. Ho conosciuto persone attente e sensibili a queste tematiche che si sforzano quotidianamente di svilupparle coinvolgendo gli allievi. Purtroppo però costoro rappresentano ancora una minoranza.
Non parliamo poi dei genitori. Secondo un sondaggio Gallup del 2009 il 41% degli statunitensi pensa che l’allarme sul riscaldamento climatico sia esagerato dai media. Nel 2008 la percentuale sullo stesso campione di cittadini era del 35%... Sarebbe ingiusto addossare alla sola istituzione scuola, sostiene dunque Latouche, la responsabilità di questo stato delle cose. Oggi i genitori hanno abbandonato, per ragioni diverse, il loro ruolo di educatori, delegandolo alla scuola e più ancora alla televisione: il sistema pubblicitario occupa lo spazio abbandonato dai genitori e che la scuola non riesce a riempire. La scuola oggi deve cessare di trasmettere la religione della crescita e formare invece cittadini in grado di pensare con la propria testa.
Le generazioni future dovranno creare una società autonoma dai vecchi schemi. Illich propone quello da lui definito come “tecnodigiuno ascetico” : “Proviamo a rinunciare a qualcosa, non per abbellire la nostra vita ma per ricordare a noi stessi quanto siamo attaccati a questo mondo moderno”.
Per uscire dalla società dei consumi e realizzare quella della decrescita è indispensabile uscire dal suo regime di “cretinizzazione civica” , denunciare l’aggressione pubblicitaria e combattere quello che Cornelius Castoriadis, altro pensatore caro a Latouche, chiama “l’onanismo consumistico e televisivo”.
In buona sostanza Latouche auspica una rivoluzione culturale che porti a quei mutamenti indispensabili per la sopravvivenza della nostra specie sul pianeta. Anch’egli giudica la crisi economica come un buon presupposto se faciliterà l’uscita dalla religione della crescita ed in particolare - ed a dimostrazione che forse il progetto che egli propone è meno utopistico di quanto possa apparire ad un primo approccio - indica come modello di società da seguire quello delle cosiddette Città di Transizione, nato in Irlanda e che si sta diffondendo nel Regno Unito, come forma di costruzione che più si avvicina a una società urbana improntata alla filosofia della decrescita. Queste città puntano in primo luogo all’autosufficienza energetica in previsione della fine delle fonti di energia fossile.
Non so quanto la sua proposta sia in concreto realizzabile, ciò nonostante è indubbio che le teorie di Latouche meritino rispetto ed attenzione soprattutto perché almeno costituiscono un punto di partenza, una base utile ad avviare il dibattito sulla costruzione di nuovi modelli societari, nuovi stili di vita ai quali la specie umana dovrà prima o poi obbligatoriamente adattarsi.
Michele Salvadori
2 commenti:
Mi trovo d'accordo sul fatto che a furia di parlarne, si è fatto tardi. Troppo tardi per evitare una crisi gravissima, peraltro già cominciata, ma ancora in tempo per mitigarne gli effetti e "cadere ginocchioni invece che a diacere" come si diveva un tempo.
Non ho letto il libro, ma da quello che ne dice Michele, mi pare che molte cose siano condivisibili (non tutte, ad esempio non condivido le monete locali, ma il discorso sarebbe lungo). Tuttavia mi pare che da parte più o meno di tutti gli autori si giri pudicamente intorno ad un dettaglio di un qualche rilievo: decrescita vuol dire soprattutto decrescita demografica, altrimenti nessun modello di sostenibilità sarà sostenibile.
Come ed in quanto tempo? Nessuno ce lo dice. Probabilmente perché è semplicemente un problema ingestibile di cui potremo solamente osservare il divenire. Bene, ma in questo caso quanto serve tutto il resto? Secondo me a molto, molto poco.
Prova ne sono le crisi arabe odierne. Crisi che un cambio di governo e di politica potrebbero certamente mitigare per qualche anno, ma non di più perché dipendono in primis da fattori demografici (che possono solo peggiorare), in secundis da fattori economici ed in particolare dal costo del cibo (che può solo peggiorare)ed in tertis da fattori politici (che potrebbero migliorare, ma anche peggiorare, vedremo).
E allora? Allora penso che facciamo molto bene a pensare e discutere questi argomenti, ma non perché ciò potrà influenzare efficacemente la fase di decrescita, bensì perché potra influenzare e molto la successiva fase di ricostruzione.
In altre parole, penso che una nuova civiltà più sensata e giusta potrà effettivamente nascere, ma non dal tronco della civiltà attuale, bensì dalle sue ceneri.
Jacopo Simonetta
"...In altre parole, penso che una nuova civiltà più sensata e giusta potrà effettivamente nascere, ma non dal tronco della civiltà attuale, bensì dalle sue ceneri"
Concordo pienamente con Jacopo,
Alberto Messana
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