Capita ormai con una certa frequenza di assistere a dichiarazioni pro-nucleare da parte di personalità autorevoli del mondo della cultura scientifica ed in alcuni casi, addirittura, a manifesti cambiamenti di rotta da parte di qualcuno che, fino a poco tempo fa, se ne dichiarava un acerrimo nemico.
In Italia ha suscitato grande clamore la scelta a favore di questa tecnologia da parte del Professor Umberto Veronesi, e sono proprio di ieri le dichiarazioni di James Hansen, astrofisico e docente di Scienze della Terra alla Columbia University, che ha ribadito di sostenere il nucleare in quanto, ad oggi, non siamo in possesso di tecnologie alternative migliori per attenuare il cambiamento climatico in atto causato, anche, dall’uso dei combustibili fossili.
L’occasione di affrontare questo tema mi è venuta dalla lettura di un testo uscito da poco in Italia dal titolo: “Una cura per la Terra – Manifesto di un ecopragmatista” (Codice Edizioni, pp.350, €. 23,00) di Stewart Brand, tra i fondatori del movimento ambientalista americano e che, da convinto oppositore del nucleare, cerca di spiegare nel suo testo perché ha cambiato idea a riguardo.
In USA il libro ha suscitato grandi polemiche anche perché l’autore non si limita solo ad appoggiare il nucleare ma parla anche a favore degli organismi geneticamente modificati (OGM).
E’ notoria la posizione degli Amici della Terra contro queste due tecnologie e dunque perché affrontare una simile lettura?
Sono profondamente convinto che sia importante provare ad ascoltare chi ha idee diverse dalle nostre: ciò può avere una doppia utilità: rafforzare le nostre convinzioni migliorandole oppure al contrario ravvederci finchè siamo in tempo a farlo.
E’ con questo spirito che ho affrontato una lettura in parte faticosa, a volte eccessivamente tecnica per le mie conoscenze, ma talvolta davvero stimolante e costruttiva.
Brand non è un ciarlatano e, consapevole delle critiche che potranno piovergli addosso a seguito delle proprie tesi, cerca di prevenirle smontando pezzo per pezzo e con assoluta rigorosità scientifica tutte le potenziali argomentazioni sulle tematiche che affronta.
Egli parte da un presupposto condivisibile ed ormai indiscutibile: il cambiamento climatico sulla Terra è in atto e l’uomo deve trovare delle soluzioni al problema, non per risolverlo, operazione ormai impossibile, ma quanto meno per attenuarlo.
Brand fa anche un’altra affermazione che condivido: il problema esiste per la specie umana; la Terra in ogni caso se la caverà. La questione dunque non è salvare il pianeta, ma preservare le attuali specie viventi.
Gli studi geologici dimostrano che 55 milioni di anni fa l’attuale Mar Glaciale Artico aveva una temperatura media di 23 °C e che l’intero pianeta probabilmente era caratterizzato da un clima tropicale. Il rischio per noi è quello di tornare a quello stato di cose.
Le strategie suggeriteci per affrontare il cambiamento climatico sono tre.
Mitigazione: attraverso la riduzione delle emissioni ad effetto serra.
Adattamento: attraverso lo spostamento delle popolazioni costiere verso nord, lo sviluppo di colture resistenti alla siccità e prepararsi ad accogliere masse di rifugiati ambientali.
Miglioramento: attraverso interventi di geoingegneria su larga scala (nell’ultima parte del suo libro Brand ne fa un lungo elenco).
Il problema siamo noi, dicevamo: attualmente l’uomo consuma circa 16 terawatt di elettricità, gran parte della quale proviene dall’utilizzo di combustibili fossili: è come lasciare accese 160 miliardi lampadine da 100 watt senza spegnerle mai!
Per mantenere il livello di concentrazione di CO2 sotto i limiti di non ritorno dovremmo riuscire a produrre elettricità da combustibili fossili per appena 3 terawatt; il che significa che dovremmo produrre tutto il resto dell’elettricità di cui abbiamo bisogno attraverso fonti non fossili e soprattutto che dovremmo riuscirci al massimo entro i prossimi 25 anni.
Brand cita alcuni esempi pratici a riguardo.
Per ottenere 2 terawatt di fotovoltaico dovremmo installare 100 metri quadrati al secondo di celle solari per i prossimi 25 anni, per 2 terawatt di solare termodinamico 50 metri quadrati al secondo, per 2 terawatt di biocarburanti 4 piscine olimpiche di alghe geneticamente ingegnerizzate al secondo, per 2 terawatt di eolico una turbina eolica di 90 metri di diametro ogni 5 minuti, per 2 terawatt di geotermico 3 turbine a vapore da 100 megawatt ogni giorno e per 3 terawatt di nucleare una centrale da 3 gigawatt con 3 reattori alla settimana, il tutto sempre moltiplicato per 25 anni!
“Una cura per la Terra” si propone di offrire una serie di strumenti di cui gli ambientalisti hanno sempre diffidato ma che oggi, a parere dell’autore, sono indispensabili se vogliamo fare qualcosa per salvaguardare il futuro della nostra specie.
Nel capitolo dedicato al tema dell’urbanizzazione, Brand sostiene che le città sono fonte di ricchezza, assorbono popolazione e contribuiscono ad aumentare la capacità portante della Terra. Le città sono costose sia a livello ambientale che economico, ma i ricavi sono di gran lunga superiori ai costi. Nelle aree urbane promuovere nuove forme di produzione del reddito risulta molto più semplice, e fornire servizi è decisamente più economico: basta pensare all’istruzione, alla sanità, alle condizioni igieniche, acqua, energia elettrica: su base procapite tutto è decisamente più semplice ed economico. Brand, a sostegno della sua tesi cita la “Legge di Kleiber”: maggiori sono le dimensioni degli organismi, maggiore è la loro efficienza metabolica.
Per le città è lo stesso: riunire le persone rende tutto più efficiente, si richiede una quantità leggermente inferiore di tutto per ciascuno. Le città possono addirittura rappresentare un calmiere per il controllo demografico. Le statistiche infatti dimostrano come il calo delle nascite sia più sensibile nelle metropoli piuttosto che nelle zone scarsamente abitate del pianeta. Nelle aree urbane infatti il contributo economico dei bambini è praticamente assente e, man mano che le donne colgono sempre maggiori opportunità economiche, il costo sociale della procreazione aumenta.
E’ partendo da questo presupposto che Stewart Brand cerca di sviluppare il suo concetto di nuova “ecologia Urbana” come una delle potenziali soluzioni ai problemi dell’inquinamento.
Quando si tratta di cambiamento climatico, le persone più informate sono le più spaventate, mentre nel caso del nucleare i più informati sono i meno spaventati.
E’ con questo incipit che Brand affronta il capitolo più discusso del suo libro, ovvero quello dedicato al nucleare. Egli ammette di aver fatto parte fino a pochi anni fa della nutrita schiera di ambientalisti contro il nucleare e di aver cambiato idea a riguardo dopo aver visitato il deposito di scorie di Yucca Mountain (di recente il governo americano ne ha stabilito la chiusura definitiva). A parere dello scienziato americano il principale argomento usato contro il nucleare ovvero quello della gestione delle scorie, ha poco senso in quanto il principale errore in cui incorrono gli ambientalisti è quello di ragionare sempre in termini di contemporaneità del problema. Allo stato attuale le scorie possono, lo ammette, costituire un problema, ma come possiamo pensare che la tecnologia dell’uomo sia la stessa tra 200 anni quando, e solo allora, potenzialmente le scorie potranno divenire pericolose? Inoltre fa accenno ad una nuova strategia in via di sviluppo che prevede in un futuro prossimo l’impiego di trivellazioni a grande profondità (4-5 chilometri), dove nello strato roccioso l’acqua è molto salina e dove stipare le barre di carburante, dimenticandosi del problema. Egli inoltre sostiene che i nuovi reattori sono costruiti con tecnologie in grado di garantire quella sicurezza degli impianti che in passato non c’era. Sul problema dei costi eccessivi di realizzazione egli sostiene che in realtà il vero problema è rappresentato dai costi troppo bassi del carbone e a riguardo anch’egli si dichiara a favore della istituzione di una “carbon tax” ovvero di una tassa sulle emissioni di gas serra i cui ricavi siano però da subito utilizzati a vantaggio dei cittadini e ad incentivo di tutte le tecnologie “pulite”. Inoltre se è vero che una centrale nucleare ha costi esorbitanti nella sua fase di avvio è altrettanto vero che i suoi costi operativi risultano poi molto inferiori se paragonati a quelli delle centrali a carbone o a gas. I cosiddetti reattori di IV generazione saranno alimentati a torio, tre volte più abbondante dell’uranio, che non può essere fuso, non è utilizzabile per la fabbricazione delle armi e genera pochi rifiuti, con costi di costruzione ed esercizio inferiori, maggiore efficienza, ed infine alte temperature in grado di generare idrogeno e desalinizzare l’acqua.
In buona sostanza, Brand, come del resto anche J. Hansen, sostiene che, in mancanza di meglio, il nucleare in questo momento storico può rappresentare un’alternativa valida, una delle possibili soluzioni, certo non l’unica, per cercare di attenuare le problematiche connesse alle emissioni di gas serra, partendo anche dalla constatazione che le attuali energie alternative, come l’eolico ed il solare, ad oggi non sono in grado di garantire quella continuità di produzione indispensabile ad esempio alle città che necessitano di una rete elettrica che fornisca costantemente energia.
Le obiezioni che mi sento di fare a Brand riguardano tre aspetti. Il primo lo inquadro nel contesto italiano. Il nostro paese non ha depositi di uranio e dunque con la costruzione di centrali nucleari forse diminuiremo il nostro impatto sull’ambiente, certo non quello della dipendenza economica da altri Paesi, dai quali dovremo inevitabilmente acquistare il combustibile necessario al funzionamento delle nuove centrali. Il secondo punto riguarda l’annosa questione della gestione delle scorie: giudico un po’ troppo semplicistica l’ipotesi secondo cui tra 200 anni, ciò che oggi rappresenta un problema, l’uomo lo avrà probabilmente affrontato e risolto. Inoltre, purtroppo, inevitabilmente la tecnologia nucleare sarà una tecnologia selettiva, legata a specifiche competenze che di fatto continueranno a dividere il pianeta tra Paesi in grado di gestirla e trarne grossi profitti economici ed altri condannati a subirla, pagandone le conseguenze politiche, sociali ed economiche.
Lo scrittore affronta poi la delicata questione OGM.
Anche in questo caso egli cita un lungo elenco di casi e situazioni a vantaggio delle proprie tesi. Invito gli interessati a leggersi con calma il libro per poter valutare concretamente le posizioni di Brand. Mi limito, per ovvie ragioni di spazio a citare solo alcuni dei tanti esempi che egli fa.
“E’ in corso – afferma S. Brand – dal 1996 il più grande esperimento dietetico della storia. Un immenso gruppo di persone – l’intera popolazione del Nord America – ha avuto il coraggio di iniziare a mangiare grandi quantità di cibi geneticamente ingegnerizzati. (….) Nel frattempo, il gruppo di controllo (la popolazione europea) ha fatto il considerevole sacrificio economico di fare a meno di queste colture e si è anche preso il disturbo di vietare tutte le importazioni di questi alimenti. (….) Ora i risultati sono pronti e incontrovertibili. Il gruppo sperimentale ed il gruppo di controllo non presentano differenze.”
Lo stesso Brand cerca di spiegare come nella vita di tutti i giorni siamo costantemente invasi da continui esempi di modificazioni genetiche senza che queste ci mettano in allarme: non proviamo alcuna repulsione al pensiero di un mulo, un incrocio innaturale tra un cavallo ed un asino; senza contare che la più grande impresa d’ingegneria genetica dell’umanità, la conversione di un’erba poco utile, nella piante alimentare più popolare del mondo, il mais, è stata realizzata dagli indiani pre-colombiani.
Ogni processo nella biosfera è influenzato dalla capacità dei microbi di trasformare il mondo attorno a loro. Sono i microbi che convertono gli elementi chiave della vita – carbonio, azoto, ossigeno e zolfo – in sostanze accessibili a tutte le altre forme viventi. “Ogni pochi minuti – sostiene ancora Brand – tutti i microbi del nostro corpo (e negli oceani, nel suolo e nell’aria) sfidano le precauzioni e Dio compiendo un atto illecito in Europa: si scambiano geni nell’infinita ricerca di vantaggi competitivi o collaborativi.”
Gli ingegneri genetici non hanno inventato niente - sempre secondo la tesi di Stewart Brand- ma preso in prestito la ricombinazione genetica. Immaginiamo di essere in un bar e di sfiorare un ragazzo dai capelli verdi e così acquisire parte del suo codice genetico. Usciremo dal bar con i capelli verdi e saremo in grado di passare il gene dei capelli verdi anche ai nostri figli. I batteri compiono di continuo questo tipo di acquisizione rapida dei geni. Talvolta gli esempi della natura possono essere estremamente costruttivi per noi. Di recente, gli scienziati stanno provando ad imitare quel miracoloso bioreattore presente nell’intestino delle termiti, dove la complessa colonia batterica che vi risiede è in grado di trasformare un foglio di comune carta in oltre 1,5 litri di idrogeno.
In effetti, se pensiamo alle potenziali applicazioni che potrebbe avere la ripetizione di questo processo su larga scala, debbo ammettere che in questo caso egli avrebbe ragione.
Per Brand, però, il dichiararsi a favore dell’ingegneria genetica non significa essere contrari all’agricoltura biologica cui vengono riconosciuti comunque grandi meriti. Anzi egli arriva a suggerire che probabilmente la soluzione ideale sarà proprio quella di riuscire a combinare in un prossimo futuro le due tecnologie: l’ingegneria genetica potrà essere utilizzata per produrre semi con una migliore resistenza a parassiti e patogeni, mentre l’agricoltura biologica potrà gestire il complesso dei parassiti in modo più efficace riducendo al contempo l’impatto dei concimi di sintesi, degli erbicidi e dei pesticidi sui suoli, le acque e la fauna.
Il testo non manca di accenni polemici contro il mondo ambientalista accusato dall’autore di essere troppo legato alle proprie ideologie e di non essere disposto a modificarle anche di fronte all’evidenza dei fatti. Anche in questo caso, lo riconosco, non tutte le accuse sono peregrine.
Al contempo però egli giudica comunque ancora prezioso il ruolo che gli ambientalisti potranno intraprendere nell’immediato futuro a patto di abbandonare la vena eccessivamente romantica che contraddistingue da sempre parte del movimento e che tende ad essere in genere pessimista.
Gli ambientalisti romantici, secondo Brand, hanno la tendenza a provare un certo disagio nei confronti di chi tenta di risolvere i problemi dato che l’essenza della tragedia è proprio il fatto di non poterla risolvere. E i romantici amano i problemi…
E d’altro canto anche gli ambientalisti romantici hanno un ruolo: quello di attrarre le persone attorno a se, quello di riuscirle a coinvolgerle emotivamente e dunque ad ispirarle.
Secondo Brand il nuovo ambientalismo pragmatico dovrà cercare di coinvolgere sempre più altre due categorie: gli scienziati che scoprono i problemi e gli ingegneri che in genere i problemi provano a risolverli.
In buona sostanza, l’ecopragmatismo suggerito da Brand invita tutti noi ad ampliare il campo di osservazione con cui valutare le nostre attività a favore della salvaguardia del pianeta. Ciò che facciamo, le attività nelle quali ci stiamo impegnando andrà ben oltre la durata della nostra vita e potrà riguardare il futuro di centinaia di generazioni. E’ con questa ottica che dobbiamo valutarlo.
Dobbiamo avere il coraggio di ripensare e mettere sempre in discussione le nostre idee; questo alla fine il messaggio che mi sento di condividere con l’autore del libro.
Forse qualcuno di noi ha gridato troppo spesso al lupo, al lupo, con il risultato di veder screditata la propria attendibilità come profeta di sventure; forse un pizzico di ottimismo in più in quanto facciamo potrebbe essere di aiuto a tutti nel lungo percorso che ci attende; resta però in me la convinzione che un sano principio di precauzione debba essere sempre applicato da chiunque, anche dagli eco-pragmatisti.
Philip Tetlock, psicologo e politologo ha scritto: “Come pensi, conta più di ciò che pensi”.
Michele Salvadori
2 commenti:
alcune puntualizzazioni:
1. la temperatura di 23 gradi 55 milioni di anni fa per l'Artico è difficile, 65 milioni magari sì, ma proprio a 55 abbiamo il primo massimo glaciale, corrispondente ad un brusco raffreddamento,le cui cause sono piuttosto chiare Quindi forse è "FINO A POCO PIÙ DI 55 MILIONI DI ANNI FA etc etc, il che è francamente diverso
2. che il nucleare consenta di fare energia senza emisisoni di CO2 è un concetto sballato: la costruzione di una centrale non è a costo CO2=0
3. a quanto ho capito il nucleare immette sempre la stessa energia in rete e quindi non è in grado di gestire picchi di richieste
4. opodichè, anche io sarei favorevole al nucleare, ma se e solo se mi elimini il problema delle scorie.
per brevità rimando ai miei post sull'argomento e cioè
http://aldopiombino.blogspot.com/2010/02/la-questione-delle-scorie-nucleari.html
e
http://aldopiombino.blogspot.com/2010/03/gli-usa-e-lle-scorie-nucleari-un.html
Si tratta di argomenti che non si riassumono bene in poche parole, ma direi quanto segue:
Per il nucleare (premesso che non so niente di cantrali al Thorio e quindi mi riferisco a quelle ad uranio).
1 - Il problema vero non è la produzione di energia, ma la crescita economica. Su questo il lavoro dei Meadows e soci è convincente, almeno per me. Ergo,più delle tecnologie occorre fare attenzione allo scopo per le quali si adoperano. Mantenere la crescita economica o cercare di stabilizzarla?
2 - I giacimenti importanti di uranio sono finiti da un pezzo e ci vuole non poco petrolio per la filiera: dalla roccia alla scoria sepolta 5 Km sottoterra. Ergo gli unici posti dove se ne può trovare con poche enissioni è negli arsenali USA ed ex URSS, ma bisogna vedere a che prezzo.
3 - Dare per scontato che fra 200 anni la tecnologia potrà fare cose oggi impossibili è sciocco. Per quanto ne sappiamo è semmai più probabile il contrario.
4 - Si può anche provare a mettere in cantiere qualche nuova centrale nucleare, ma teniamo conto che non abbiamo nessuna garanzia di riuscire ad arrivare in fondo, e neppure di potercene godere gli effetti. Se Word3 ed una massa di studi di settore non sbagliano di grosso (e finora non lo hanno fatto) la sitazione fra 25 anni sarà a dir poco "fluida".
5 - Ciò nondimeno io sarei favorevole a mantenere una limitata industria nucleare per motivi soprattutto militari (non solo disporre di un deterrente autonomo è indispensabile per sganciarsi a quello USA, ma anche la possibilità di alimentare alcuni servizi d'emergenza in caso di difficoltà di importazione può essere importante.
Per gli OGM direi che in teoria si potrebbero effettivamente usare per risolvere una serie di problemi, ma è anche vero che finora sono stati usati esattamente al contrario. Quindi, anche qui più che concentrarsi sulla tecnologia, ci dovremmo concentrare su chi la controlla ed a quale scopo la usa.
Inoltre c'è un problema di rapidità e di effetti imprevedibili. Il riassortimento genetico naturale segue leggi che ci sono ignote e procede sotto la continua supervisione della selezione naturale. Sintetizzare un genotipo in laboratorio è una faccenda completamente diversa e chi non se ne rende conto è perlomeno un superficiale (su questo argomento).
Infine non sarei così sicuro che i due gruppi di contrllo (americani ed europei) non presentino differenze. Mi pare invece che ne presentino un mucchio e che, nell'insieme, in Europa ce la stiamo cavando meno peggio. Magari non ci ha niente a che fare con gli OGM, ma forse anche si. Per poterlo dire ci vorrebbero studi approfonditi che richiederebbero decenni (magari ci sono anche, ma mi pare che il nostro non li citi).
Per esempio, la percentuale di obesi negli USA è molto più alta che in EU. Ha a che fare con gli OGM? BOH? Assolutamente non ne ho idea, ma è semplicemente non vero che sulle due sponde dell'Atlantico stiano succedendo le stesse cose. E non è neppure vero che gli OGM hanno fatto tanto bene alle tasche dei contadini USA, semmai il contrario.
Jacopo Simonetta
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