lunedì 16 maggio 2011

"Gaia" di James Lovelock

Come avviene in campo letterario, anche in quello scientifico e ambientalista si possono individuare dei testi che col tempo hanno assunto la fisionomia di “classici” del settore e dunque acquisito un proprio valore storico ancorchè, sul piano scientifico, abbiano inevitabilmente perduto quella validità che potevano possedere al momento della loro prima pubblicazione.

E’ il caso di “Gaia”, il celeberrimo libro scritto da James Lovelock nel 1979 che ha di fatto rivoluzionato l’ecologia e gli studi sull’ambiente offrendo una prospettiva nuova al settore degli studi dedicati all’ambiente. Questo testo che solo in Italia è stato pubblicato ben 4 volte (1979, 1987, 1995 e 2000) viene adesso riproposto dal suo editore (Bollati Boringhieri) in una nuova edizione 2011 (la quinta!) a dimostrazione del continuo interesse suscitato dai suoi contenuti che, se all’epoca del sua prima uscita suscitarono scarso interesse e condivisione delle teorie illustratevi, col tempo ha acquisito un numero sempre maggiore di sostenitori.

A differenza di un testo letterario, uno di carattere tecnico è condannato inevitabilmente a subire in modo repentino il passare degli anni. Qualunque teoria scientifica a distanza di pochi anni rischia di essere superata da nuove ricerche e scoperte. E’ in fondo uno degli aspetti positivi del nostro sapere quello di essere in continua evoluzione. Questa regola vale naturalmente anche per “Gaia”, la cui lettura odierna mostra inevitabilmente i segni del tempo ma che risulta ancora oggi di grande interesse, oltre a suscitare notevole ammirazione nei confronti del suo autore per il messaggio estremamente innovativo che egli seppe creare (se pensiamo, appunto, che lo fece ben oltre trent’anni fa!).

E qual è allora in sintesi la teoria illustrata in questo testo? Negli anni ’70, anche a causa della prima crisi petrolifera che costringe l’umanità a porsi i primi interrogativi sull’eccesso di consumi energetici, si assiste alla nascita dei principali movimenti ambientalisti e si sviluppa il primo serio dibattito su queste tematiche che vede svilupparsi due netti fronti contrapposti tra loro; quello dei cosiddetti “catastrofisti” che ritenevano che la Terra si sarebbe progressivamente raffreddata, che prevedevano la glaciazione anche del Mar Mediterraneo lasciando all’uomo poche possibilità di scampo; e quello dei loro detrattori, gli “ottimisti”, che erano invece sin troppo fiduciosi riguardo alle sorti del nostro pianeta a prescindere dai metodi utilizzati dall’uomo per attingere alle sue risorse.
James Lovelock
Di fronte a queste due strade, Lovelock – e qui sta la sua grande novità – propone un’ipotesi in qualche modo equidistante da entrambe. Nella sua prima formulazione l'ipotesi Gaia, che altro non è che il nome del pianeta vivente (derivato da quello dell'omonima divinità femminile greca, nota anche col nome di Gea), si basa sull'assunto che gli oceani, i mari, l'atmosfera, la crosta terrestre e tutte le altre componenti geofisiche del pianeta Terra si mantengano in condizioni idonee alla presenza della vita proprio grazie al comportamento e all'azione di tutti quegli organismi che concorrono a formarla; la Terra (Gaia, appunto) è, secondo lo scienziato inglese, un unico organismo vivente capace di autoregolarsi e di rispondere a tutti quei fattori nuovi e avversi che ne turbano gli equilibri naturali. La materia vivente non rimane passiva di fronte a ciò che minaccia la sua esistenza. Ad esempio la temperatura, lo stato d'ossidazione, l'acidità, la salinità e altri parametri chimico-fisici fondamentali per la presenza della vita sulla Terra, presentano valori costanti. Questa omeostasi (la condizione di relativa stabilità interna ad un organismo, che deve mantenersi anche al variare delle condizioni esterne attraverso meccanismi autoregolatori) è l'effetto dei processi di feedback (la risposta ad un determinato effetto) attivo svolto in maniera autonoma e inconsapevole dal biota (l'insieme della vita vegetale e animale che caratterizzano una certa regione o area). Inoltre tutte queste variabili non mantengono un equilibrio costante nel tempo ma evolvono in sincronia con il biota. Quindi – afferma Lovelock - i fenomeni evoluzionistici non riguardano solo gli organismi o l'ambiente naturale, ma l'intera Gaia fornendo al contempo una risposta anche a coloro i quali ritengono la natura come una forza primitiva da soggiogare e da conquistare.

Naturalmente la teoria di Gaia è suffragata da una serie di dati e controprove che ci vengono illustrate in dettaglio nel testo che pur ha il grande pregio di utilizzare toni divulgativi che lo rendono accessibile anche ad un pubblico non troppo preparato alle tematiche affrontate.

Ma gli spunti di riflessione che questo testo ci offre sono davvero molti anche ad una sua lettura in chiave storica. Ad esempio la fine degli anni ’70 è l’epoca delle prime ipotesi di vita su altri pianeti. Vengono inviati i primi satelliti (il Viking, ad esempio) alla ricerca di elementi utili a stabilire la possibilità di vita in ambienti diversi dalla Terra. Lovelock ne trae spunto per affrontare delle considerazioni sul concetto stesso di vita. “Come possiamo essere sicuri – egli si chiede - che il tipo di vita su Marte, se esiste, possa rivelarsi con degli esami basati sul genere di vita della Terra?” e ancora: “Che cos’è la vita e come dovrebbe essere identificata?” Domande, a mio parere, ancora oggi senza una risposta definitiva.

Come primo argomento a favore della sua teoria, Lovelock utilizza il raffronto tra pianeti quali Marte, Venere e la Terra. Mentre la condizione di grande acidità atmosferica sia di Marte che di Venere ha reso su entrambi questi pianeti di fatto impossibile lo sviluppo della vita, (almeno per come lo intendiamo noi), sulla Terra si sono create delle eccezionali condizioni di neutralità chimica tali da favorirla, ma soprattutto, tali condizioni di neutralità si sono mantenute nel corso di milioni di anni a prescindere da eventi, anche traumatici, che pure l’avrebbero dovuta modificare drasticamente e forse irrimediabilmente. “Tutto questo è semplicemente dovuto al caso?”, si chiede l’autore.

E ancora. La Terra gira intorno a un’incontrollata fonte irradiante di calore, il Sole, la cui radiazione non è per nulla costante. Eppure fin dall’inizio della vita, circa tre miliardi e mezzo di anni fa, la temperatura media della Terra non si è mai scostata per più di alcuni gradi dai suoi attuali livelli. Non è mai stato troppo caldo o troppo freddo per la sopravvivenza della vita sul nostro pianeta.

Il ragionamento poi prosegue con l’analisi dei singoli gas componenti l’atmosfera: dal principale per noi, l’ossigeno, la cui percentuale (21%) resta miracolosamente costante e tale da consentire lo sviluppo della vita sul pianeta ed al contempo senza raggiungere valori appena di poco superiori (basterebbe il 25%!) da rendere la nostra atmosfera facilmente incendiabile! Fino all’ammoniaca, derivato dell’azoto, avente lo scopo principale, secondo Lovelock, di regolare appunto l’acidità dell’ambiente consentendo, ad esempio, alla pioggia di mantenere un PH vicino ad 8, ottimale per la vita, quando in assenza di ammoniaca in atmosfera il valore del PH sarebbe vicino a 3 ovvero estremamente acido (è il valore del nostro aceto). A questo proposito fa sorridere una prima constatazione di carattere storico quando, in merito alla questione dell’acidità atmosferica, l’autore parla delle prime ipotesi relative alle cosiddette “piogge acide” in Scandinavia e America Settentrionale causate (sembrerebbe!) dall’inquinamento prodotto dalla combustione degli oli industriali per il riscaldamento domestico!

Quando viene affrontato il tema dell’anidride carbonica, all’epoca della prima uscita del libro attestatasi a valori atmosferici attorno allo 0,03% , lo scienziato inglese si dimostra abbastanza scettico in merito alla teoria appena sviluppata secondo la quale il consumo dei combustibili fossili sarebbe destinato ad incrementare notevolmente negli anni seguenti la percentuale di CO2 in atmosfera con conseguenze sul surriscaldamento del pianeta. Ovvio che in’epoca in cui si guardava con preoccupazione al rischio glaciazione l’ipotesi di surriscaldamento fosse vista da alcuni quasi come auspicabile. Inoltre questo argomento, ammesso pure si rivelasse in futuro realistico, per Lovelock cozzava con la sua teoria secondo cui qualunque fenomeno di questo tipo poteva essere facilmente riequilibrato proprio dalla combinazione di tutti gli agenti che compongono il sistema Gaia. Analogo scetticismo viene manifestato nei confronti di un altro problema che inizia a manifestarsi alla fine degli anni ’70: il buco dell’ozono, causato dall’impiego di alcuni gas, i Clorofluorocarburi (CFC) usati all’epoca per il funzionamento di alcuni elettrodomestici (frigoriferi) e per le bombolette spray. Anche in questo caso secondo Lovelock il sistema Gaia sarebbe stato in grado col tempo di innescare dei meccanismi di riequilibrio. Significativo, a tal proposito, il fatto che col passare degli anni il nostro scienziato non solo avrebbe cambiato idea sull’effettiva pericolosità del fenomeno ma addirittura ne sarebbe divenuto uno dei principali artefici della battaglia che avrebbe condotto all’adozione di misure necessarie alla ricomposizione dello strato di ozono atmosferico.

Infine, lo stesso scetticismo Lovelock lo manifesta anche nei confronti della battaglia contro il famigerato pesticida DDT largamente usato negli anni passati dagli agricoltori ma ritenuto causa di gravi malattie. Ebbene anche in questo caso, pur manifestando la massima solidarietà con l’autrice di “Primavera Silenziosa”, Rachel Carson, la prima a denunciare i drammatici effetti dell’uso di questa sostanza a tal punto da paventare un futuro senza uccelli e per questo “silenzioso”, Lovelock si mantiene fiducioso riguardo alla possibilità che anche i danni prodotti da questo antiparassitario possano nel giro di breve tempo essere comunque riassorbiti.

Ciò che secondo il nostro scienziato inglese è fondamentale è che comunque l’uomo preservi alcune aree del pianeta da lui considerate vitali al mantenimento delle capacità di riequilibro da parte del sistema Terra. A riguardo di queste aree Lovelock appare, a mio parere, un po’ reticente. Parla in maniera generica delle zone dei tropici e poi si sofferma sugli estuari dei fiumi, sulle paludi e le piattaforme continentali. Questo patrimonio dovrà essere preservato dall’uomo- in fondo questa è l’unica conditio sine qua non che egli pone - se vorremo preservare la capacità del pianeta di ripristinare ogni volta l’equilibrio intaccato.

Sull’uomo Lovelock mostra di nutrire grandi speranze; secondo lui, l’uomo, rispetto ad altre specie viventi sulla Terra, non eccelle né nel volume del cervello, né nelle sue capacità di animale sociale, tantomeno per l’uso della parola o nell’uso di strumenti. Ciò in cui l’uomo eccelle è nella capacità di utilizzare tutti questi mezzi al contempo, ottimizzandone l’insieme e così facendo raccogliere, accumulare ed elaborare informazioni, e quindi usarle per manipolare l’ambiente con determinazione e in modo da anticipare i tempi.

L’ottimismo per il futuro tuttavia non offre certezze riguardo a quelli che potranno essere gli sviluppi. Secondo Lovelock “non siamo in grado di immaginare con precisione quello che avverrà” e aggiunge: “Non vi possono essere prescrizioni o insieme di regole per vivere su Gaia. Per ciascuna delle nostre diverse azioni vi sono solo conseguenze”.

L’errore più grande che l’uomo possa commettere è quello di ritenere di poter soggiogare la natura ai propri interessi. L’uomo è parte stessa della natura; egli può, anzi, deve sforzarsi di vivere con “intelligenza” in simbiosi con essa.

Lo scorso anno lo statunitense Peter Ward ha avanzato una nuova teoria in contrapposizione a quella di Lovelock definendola, non a caso, l’”Ipotesi Medea”. La tesi di fondo di Ward è che la Terra sia tutt’altro che benevola e per questo paragonandola alla malvagia Medea che nella mitologia greca giunse ad uccidere i suoi figli. Ma il testo di Ward è molto meno attendibile di quello di Lovelock in quanto si limita ad illustrare una sequela di disastri naturali, che nel corso della vita del pianeta hanno causato estinzioni di massa, senza il conforto di argomentazioni di carattere scientifico. A mio parere questo è troppo poco per supportare l’idea che la Terra sia una perfida matrigna.

Resta nonostante tutto il grande fascino invece dell’ipotesi “Gaia” di una Terra tutto sommato anche indulgente (come solo una madre talvolta sa essere!), che non a caso resiste da oltre trent’anni, anche se ogni tanto pure questa teoria mostra delle crepe. Dobbiamo ammettere infatti che le cose non sono sempre andate come Lovelock auspicava e che, quantomeno, di tanto in tanto, la Terra sembra perdere il pieno controllo di se (o la pazienza nei nostri confronti?) e qualche disastro naturale con conseguente estinzione di specie si verifica.

Michele Salvadori

domenica 3 aprile 2011

Amsterdam ecologica


Viaggiare, conoscere realtà diverse dalla nostra, oltre che piacevole, talvolta può essere anche istruttivo, utile ad ampliare il nostro modo di vedere le cose, apprendere diverse consuetudini di organizzazione di vita quotidiana e, perché no, ricevere utili suggerimenti per migliorarla.

E’ quanto accaduto a me e a mia moglie nel corso di un breve periodo di vacanza trascorso ad Amsterdam, dove, probabilmente sul piano del rispetto dell’ambiente, qualche punto in più sulla maggioranza delle città italiane certamente è stato raggiunto.

Partiamo dall’albergo che ci ha ospitato per tre notti: il Conscious Vondelpark Hotel , una struttura a “tre stelle” all’avanguardia in fatto di sostenibilità. Esso, grazie ad una recente e completa ristrutturazione, consuma in media il 20% in meno di energia rispetto ad un’analoga struttura standard. Le camere sono arredate con materiali eco-sostenibili provenienti da materie riciclate; tutto è ecologico, dal cotone-bio degli asciugamani e delle lenzuola ai materassi dei letti in fibra di cocco. 

Come potrete notare dalle immagini da me scattate, in ogni camera, a fianco degli oggetti di uso comune, è applicata una piccola didascalia che specifica la provenienza del materiale di fabbricazione del determinato oggetto (ad esempio un tavolo fabbricato con plastica riciclata dalle tazzine da caffè) o fornisce informazioni sul basso consumo energetico del tv a led, rispetto ad altre tecnologie, oppure suggerisce di non abusare nell’uso del sapone e dell’acqua quando ci facciamo la doccia, per non tacere dello spreco di energia elettrica. 


La colazione, a base di prodotti biologici e provenienti dal commercio equo-solidale – consumata su tavoli e sedie in materiale riciclato dove persino i porta sale e pepe sono interamente fabbricati in sughero - viene servita in piatti e bicchieri riutilizzabili e tovaglioli in carta 100% riciclata. Tutto è realizzato in prospettiva di un suo possibile recupero, riutilizzo o riassorbimento senza gravi conseguenze per l’ambiente. L’albergo offre inoltre un vasto assortimento di prodotti acquistabili: dai prodotti ecologici per l’igiene personale alle guide sul turismo sostenibile. Per finire, anche per la pulizia degli ambienti l’albergo utilizza solo prodotti totalmente biodegradabili.

Per maggiori informazioni consultate il sito all’indirizzo: http://www.museumsquarehotel.nl/about

Per la mobilità ad Amsterdam il mezzo usato per eccellenza è la bicicletta. Anche io e mia moglie Michela ci siamo ben volentieri adattati a questa abitudine (che del resto seguiamo anche nella nostra città) noleggiando due biciclette che abbiamo utilizzato per tutti gli spostamenti.

Michela e le nostre bici arancio a noleggio
Le piste ciclabili sono ovunque e la bicicletta è il mezzo abituale per andare al lavoro, fare la spesa, accompagnare i figli a scuola su tricicli dotati di grosse culle che possono ospitare anche tre bimbi alla volta! Tutte le principali arterie della città sono analogamente strutturate: due corsie centrali per il tram (secondo mezzo di trasporto più utilizzato), al fianco delle quali scorrono due corsie, una per senso di marcia destinate agli automezzi, e poi due corsie (ancora una per lato) destinate a biciclette e scooter. Tra le corsie per il tram e quelle per le auto non esistono cordoli e raramente anche tra quelle per le auto e quelle per le biciclette. Semplicemente ognuno rispetta il proprio settore! Ricordo in proposito le lunghe ed estenuanti discussioni sull’altezza in centimetri che avrebbero dovuto avere i cordoli separatori tra corsia tram e corsia auto a cui ho dovuto assistere presso l’Assessorato all’Ambiente della mia città, quando abbiamo partecipato alle riunioni preliminari per la realizzazione della nostra prima linea tranviaria!

Il parcheggio biciclette della Central Station di Amsterdam

Per dare un’idea di cosa rappresenti la bicicletta in questa città accludo di fianco la foto del parcheggio delle biciclette presso la Stazione ferroviaria centrale di Amsterdam. Questo capita in Olanda, mentre a Firenze i titolari dei lussuosi negozi di Via Tornabuoni si oppongono alla pista ciclabile in quanto impedirebbe l’ampliamento del marciapiede di fronte alle loro vetrine …

La raccolta dei rifiuti in città viene realizzata con il sistema porta a porta “spinto”. Il pomeriggio, dalle ore 18,00 in poi, è possibile depositare sui marciapiedi di fronte alla propria abitazione o attività commerciale tutti i rifiuti prodotti durante la giornata, sia pure separati nelle quattro principali tipologie: plastica e vetro, carta e cartone, organico e indifferenziato.

Il Porta a Porta ad Amsterdam

Di lì ad un paio d’ore i mezzi della locale azienda per i rifiuti passeranno a ritirarli. In più, a beneficio dei visitatori, anche lungo i bellissimi canali - una delle indubbie principali attrattive del luogo - si trovano i cassonetti a scomparsa, anche in questo caso distinti nelle varie categorie di rifiuto. A questo proposito, e rammentando l’annosa polemica che da tempo ci affligge sull’applicazione della tassa di soggiorno di uno-due euro (!) da far pagare ai turisti che visitano le nostre città d’arte, faccio presente che ad Amsterdam l’analoga tassa comunale, che anche io e mia moglie abbiano dovuto subito pagare appena giunti in albergo è pari al 5% dell’ammontare complessivo dell’importo dovuto all’albergo. Nei giorni della nostra permanenza non ho visto nessun turista strapparsi le vesti per questo!

Ed è evidente che in un ambiente più attento alle tematiche della sostenibilità sia più facile che si creino i presupposti per l’ideazione di prodotti maggiormente rispettosi dell’ambiente. E’ quanto ha fatto Christiaan Maats che si è inventato una scarpa totalmente biodegradabile e addirittura compostabile! La notizia era apparsa sui quotidiani italiani solo su brevissimi trafiletti. Ho deciso di andare a verificarla di persona. E così, muniti di un semplice indirizzo trovato su internet, io e mia moglie Michela ci siamo divertiti in questa piccola caccia al tesoro per le vie di Amsterdam che ci ha condotti con un po’ di fortuna alla sede della OAT Shoes, questo il nome dell’azienda fondata da Maats, dove Christiaan e la sua collaboratrice Marielle Van Leewen sono stati: prima sorpresi che qualcuno dall’Italia fosse interessato al loro prodotto, e poi felici di ospitarci e di mostrarci quanto stanno realizzando.

Christiaan e Marielle con
le loro creazioni

Le scarpe della Virgin Collection della Oat sono interamente biodegradabili ed hanno vinto un premio come prodotto ecocompatibile all’Amsterdam Fashion Week. Christiaan ci ha spiegato che dopo un lavoro durato più di due anni e per la cui progettazione è ricorso all’aiuto di alcuni maestri calzaturieri italiani delle Marche, sta realizzando una scarpa le cui componenti sono canapa, sughero, cotone bio, plastiche biodegradabili e sbiancanti non clorurati. La scarpa verrà realizzata senza l’ausilio di colle ed in più nella linguetta superiore conterrà i semi di una pianta da fiore che una volta dismessa le consentiranno di … germogliare! 

L’avvio della commercializzazione di queste scarpe prodotte in Bulgaria, avverrà proprio in questi giorni. Inizialmente esse saranno però distribuite solo in Olanda e Belgio. In alternativa sarà però presto possibile acquistarle via internet. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 130,00 euro. Anche in questo caso per maggiori approfondimenti consiglio di visitare il sito della OAT all’indirizzo: http://www.oatshoes.com

Uno dei modelli delle scarpe
 compostabili
Un modo diverso di vivere, insomma, è possibile. Come dimostra l’esperienza di Amsterdam, in alcuni luoghi del nostro pianeta il periodo di transizione auspicato da Tim Jackson nel suo libro si sta in concreto realizzando.

Amsterdam non sarà forse una città perfetta, del resto il tempo trascorsovi è troppo poco per conoscerla in maniera approfondita, però qualcosa lì, come altrove per fortuna, si sta facendo nell’ottica del rispetto dell’ambiente. E certo visitare il Museo Van Gogh o ammirare le tele di Rembrandt e di Vermeer al Rijksmuseum, navigare sui canali tra le case galleggianti, commuoversi visitando il Museo di Anna Frank e poi tornare ad esaltarsi al NEMO di Renzo Piano o nelle sale dello Stedelijk Museum, e fare tutto questo in un contesto attento all’ambiente, è stata davvero una bellissima esperienza.


Michela assieme a Marielle e
Christiaan nella sede della OAT

Certo, osservando per la prima volta le etichette affisse sulle pareti della mia camera d’albergo che suggerivano comportamenti più sostenibili, mi sono venute in mente le parole dei vecchi monaci trappisti che ogni ora si scambiavano: “Fratello, ricordati che devi morire!” Oggi la cosa ci fa sorridere così come del resto ci farebbe sorridere entrare in un centro commerciale e vedere sulle pareti la scritta: “Si ricorda ai gentili clienti che non si possono rubare i prodotti in vendita”.

Certe conclusioni, certi comportamenti per fortuna oggi sono scontati ma un tempo forse lo erano meno. L’uomo ha bisogno di tempo per adeguarsi ai cambiamenti, per digerirli fino in fondo. Purtroppo talvolta esso regredisce anziché progredire. Fino al secondo dopoguerra i rifiuti praticamente non esistevano. I nostri nonni in casa erano abituati a recuperare tutto, perfino i pezzi di giornale da utilizzare al posto della carta igienica, quando la carta igienica ancora non era stata inventata; ricordo che perfino la carta giallina in cui il macellaio sotto casa (ce ne sono sempre meno …!) avvolgeva la braciola acquistata da nostra madre, non veniva gettata via ma recuperata.

Ben vengano allora gli avvisi sugli stipiti delle porte e di fianco alle prese della luce, ben vengano i premi assegnati alle scarpe biodegradabili se servono a ricordarci quello che purtroppo abbiamo dimenticato!

Michele Salvadori


sabato 26 marzo 2011

Prosperità senza crescita di Tim Jackson

Come si esce dalla crisi economica e finanziaria che ha colpito le economie occidentali negli ultimi anni? In genere la risposta più comune che ci sentiamo dare è: potenziando la crescita!

Nell’ottobre del 2008, in piena crisi, il sindaco di Londra, Boris Johnson, inaugurando un enorme centro commerciale, invitava la gente ad uscire ed andare a spendere. Del resto lo stesso Presidente USA, George W. Bush all’indomani dell’ 11 settembre suggeriva agli americani di “uscire a fare spese”. E, se non ricordo male, lo stesso suggerimento era solito darlo ancora nel Natale di 2 anni fa il nostro Presidente del Consiglio, come rimedio alla crisi economica: “Italiani, spendete e non risparmiate!”

Ma siamo proprio sicuri che questa sia la soluzione giusta? Come possiamo conciliare la crescita costante dei commerci, il continuo aumento della popolazione, il costante e progressivo consumo delle risorse del pianeta in un ambiente comunque limitato e “finito”?

Tim Jackson, professore di Sviluppo Sostenibile all’Università del Surrey (Inghilterra), prova a fornire una risposta adeguata a questa domanda con la sua pubblicazione dal titolo: “Prosperità senza crescita”- Economia per il pianeta reale- (Edizioni Ambiente, pp. 300, €. 24,00).

"In un mondo in cui 9 miliardi di persone (lo si prevede per il 2050 ndr) volessero raggiungere il livello di benessere atteso per le nazioni dell’OCSE, ci sarebbe bisogno di un’economia pari a 15 volte quella attuale – sostiene Jackson – ma nessun sottosistema di un sistema finito può crescere all’infinito: è una legge fisica." Pertanto dobbiamo, per forza di cose, mettere in dubbio che la crescita sia davvero la soluzione. L’idea di un’economia che non cresce è un’eresia per gli economisti; ma, parimenti, anche l’idea di un’economia in costante crescita è un anatema per gli ecologisti! Allora, che fare?

Come ormai ci sentiamo rispondere da più parti, la crisi economica ci offre un’opportunità unica di investire in questo necessario cambiamento. Si tratta cioè di trovare una strategia nuova che consenta all’uomo di garantirsi un certo benessere entro però quei limiti ecologici richiestigli dal fatto di vivere in un ambiente delimitato ed oltremodo stressato dallo sciagurato sfruttamento ad opera dell’uomo.

Nella prima parte del suo libro Jackson cerca di spiegare i mali dell’economia capitalista partendo proprio dal suo sistema fondato sul meccanismo del “debito”, cercando di spiegare le differenze esistenti tra debito privato (quantità di denaro dovuta dai cittadini), debito pubblico (quantità di denaro dovuta dal governo al settore privato) e debito estero (insieme di debiti che governo, imprese e famiglie hanno fuori dal proprio paese). Il nostro sistema economico, di fatto, incoraggia i suoi attori ad indebitarsi; pensiamo ad esempio ai meccanismi pubblicitari che tendono a creare bisogni fino a quel momento inesistenti e spesso superflui, al desiderio di possedere un oggetto in quanto esso ci qualifica come appartenenti ad un determinato ceto sociale, al sistema degli incentivi ideati per promuovere le vendite nei negozi. Il punto è che quando questa strategia diviene insostenibile, come accaduto nel 2008, ampie fasce di popolazione rischiano di trovarsi a fronteggiare enormi difficoltà per molto tempo.

La cultura del “prendi in prestito e spendi” non favorisce la prosperità, semmai la mina. Ma quella che Jackson definisce “l’età dell’incoscienza”, appunto fondata sulla propalazione all’infinito del sistema debitorio, non è fenomeno isolato di determinati gruppi di persone. Si tratta di una prassi divenuta col tempo consuetudine e adottata a sistema definitivo all’unico scopo di poter protrarre il più a lungo possibile il meccanismo della crescita economica. Una bella frase del Cardinal Dionigi Tettamanzi riussume perfettamente il quadro: "L'uomo dovrebbe consumare per vivere, non vivere per consumare".

La vicenda del crac Parmalat così ben delineata, nella sua tragicità, nel recente film di Andrea Molaioli ,“Il Gioiellino” è a mio parere emblematica dei nostri meccanismi comportamentali. Una società tenta di risolvere il proprio indebitamento facendo ulteriori debiti, a cui fanno seguito altre richieste di prestito alle banche che provocano ulteriori debiti fino a quando, inevitabilmente, giunge il momento in cui non sarà più possibile andare avanti.

Lo stesso discorso - spiega molto bene Tim Jackson - lo possiamo fare trasferendo il meccanismo d’indebitamento dal piano economico e finanziario a quello ambientale. Nei confronti della natura e delle sue risorse l’uomo occidentale si sta comportando esattamente allo stesso modo. In questo caso un esempio illuminante è rappresentato dal calcolo dell’Impronta Ecologica che mostra in maniera lampante come l’uomo stia da tempo consumando più risorse di quante la natura possa mettergli a disposizione per il tempo fisiologicamente necessario a ricostituirle con il risultato che la prosperità di oggi è di fatto sottratta alla prosperità delle generazioni future.

L’autore di questo testo si propone di ridefinire il nostro concetto di prosperità che dovrà necessariamente basarsi su valori diversi da quelli attuali, adottando una serie di nuovi parametri. Dovremo innanzitutto rifiutare quella logica dell’abbondanza da sempre legata alla nostra idea di prosperità, indirizzandoci invece nell’uso dei beni materiali ad un maggiore senso di consapevolezza, responsabilità e condivisione.

Vi è una considerazione su tutte che credo meriti attenzione: se alcuni diritti fondamentali quali quello alla salute, all’istruzione ed alla speranza di vita risultassero strettamente dipendenti dal livello di reddito crescente, allora per l’uomo sarebbe pressoché impossibile raggiungere la felicità in assenza di crescita economica. Ma questo non è vero; l’uomo, secondo Jackson, potrà comunque raggiungere lo stadio di benessere a patto che cambi la propria mentalità. In questo ambito viene introdotto il concetto di “decoupling” ovvero del fare di più con meno: più attività economica con meno danni ambientali, più beni e servizi con meno consumi ed emissioni, in altre parole, con maggiore efficienza. Ma al contempo Jakcson ci mette in guardia dalle facili illusioni: non è pensabile risolvere tutti i nostri problemi solo attraverso il miglioramento della nostra efficienza.
Se ad esempio decido di cambiare tutte le lampadine di casa e nell’arco di un anno risparmio mille euro di consumo di elettricità e poi uso il denaro risparmiato per acquistare un biglietto aereo per i Caraibi, sicuramente trascorrerò una settimana in un isola da sogno, però avrò vanificato in poche ore tutto il risparmio, in termini di emissioni, ottenuto!
In sostanza, l’efficienza energetica se da un lato è una strategia indispensabile a promuovere il cambiamento, dall’altro potrebbe contenere un risvolto negativo in quanto potenzialmente essa può incentivare a sua volta la crescita economica in settori paralleli a quello dove si potrà ottenere una riduzione dei consumi. La sola efficienza - sostiene dunque Jackson - non potrà mai permetterci di raggiungere la sostenibilità.

Un' altra delle strade suggerite dall'autore è quella di mutuare la strategia avviata negli anni’30 del secolo scorso dal presidente americano F. D. Roosevelt e che non a caso è definita “Green New Deal”: il settore pubblico dovrà investire in nuove tecnologie che possano apportare un deciso cambiamento in termini di sicurezza energetica, infrastrutture a basso impatto ambientale e salvaguardia della natura che a loro volta potrebbero liberare risorse per i consumi e gli investimenti delle famiglie attraverso la riduzione dei costi dell’energia. La riduzione della nostra dipendenza dai combustibili fossili (con quello che ne conseguirebbe anche in termini geopolitici) potrà a sua volta creare invece maggiore occupazione nel settore della green economy, ridurre la produzione di emissioni climalteranti, o in conclusione migliorare la qualità dell’ambiente nel quale viviamo.

In particolare, l’autore si sofferma ad analizzare il sistema dei cosiddetti “incentivi verdi”, a suo parere essenziali per il lancio definitivo di queste strategie, e cita come esempio particolarmente virtuoso quello della Corea del Sud, che negli ultimi anni ha stanziato addirittura l’80% del proprio pacchetto globale d’incentivi destinandolo ad obiettivi ambientali. Si stima che in questo modo essa creerà nel giro dei prossimi quattro anni ben 960.000 nuovi posti di lavoro.

Ma questa strategia risulta ancora lontana dall’essere adottata in gran parte del resto dei paesi del pianeta. L’Italia, ad esempio, nel 2009 ha destinato appena l’ 1,3 dei suoi incentivi alla componente “verde”, a fronte del 37,8 % della Cina, del 58,7% dell’Unione Europea e del 21,2% della Francia. Gli Stati Uniti si sono per ora fermati al 9,8%.
Investire nella costruzione di nuove strade, per esempio, può in effetti garantire nell’immediato la conservazione di posti di lavoro e ridare slancio all’economia. Ma se l’incentivo viene usato per finanziare interventi ad alto impatto ambientale, in futuro potrebbe essere impossibile riportare le emissioni al di sotto dei livelli che oggi inseguiamo.

Provando a sintetizzare l’elenco delle proposte - per le quali comunque rimando come sempre alla lettura del volume - un’altra delle soluzioni avanzate dallo studioso inglese è quella della riduzione dell’orario di lavoro, secondo la ormai vecchia formula “lavorare meno, lavorare tutti”, questo anche perché secondo Jackson accorciare la settimana lavorativa consentirebbe di avere a disposizione maggior tempo libero da utilizzare per noi stessi, la famiglia, i nostri passatempi, ma – perché no – anche per l’impegno sociale come le attività di volontariato.

Altra strategia auspicata è poi quella del potenziamento della ricerca tecnologica – ovvio - in direzione della sostenibilità. Gli investimenti, secondo Jackson, dovranno essere principalmente dirottati sulla produttività delle risorse, le fonti energetiche rinnovabili, le tecnologie “pulite”, i business “verdi”, l’adattamento climatico e la valorizzazione dell’ecosistema.

Ma – ci ribadisce più volte nelle sue pagine l’autore - la strategia principale dovrà essere quella di combattere drasticamente il “consumismo” considerato da Jackson il vero cancro dell’attuale sistema. Dovremo cioè contribuire alla creazione di un nuovo “edonismo alternativo” individuando fonti di soddisfazione che esulino dal mercato tradizionale. I valori materialistici come la fama, l’immagine e il successo finanziario si oppongono a livello psicologico a valori intrinseci come l’accettazione di sé, l’appartenenza ad un gruppo sociale o il sentire di far parte di una comunità. Ma proprio questi ultimi sono gli ingredienti della nuova prosperità. Le indagini in questo settore dimostrano del resto come le persone con valori intrinseci più elevati abbiano una vita più soddisfacente e al contempo dimostrano livelli di responsabilità ambientale più alti rispetto a quelle con valori materialistici. Ma per favorire questo cambiamento strutturale sarà altrettanto indispensabile il ruolo della politica, fino ad oggi più sensibile a soddisfare la pancia dei propri elettori in cambio del loro assenso, piuttosto che a rivestire un ruolo guida verso un cambiamento virtuoso di tutta la società.

L’ultimo capitolo del libro è dedicato a quello che dovrà essere un inevitabile periodo di transizione dall’attuale sistema consumistico alla nuova era di prosperità. Stabilire i limiti sull’utilizzo delle risorse e fare in modo che le attività economiche siano molto più consapevoli, fissare tetti massimi di utilizzo delle risorse e per le emissioni prodotte, saranno i primi passi imprescindibili. A tal proposito Jackson elogia il lavoro svolto nel corso degli anni, e già a partire dal 1992, da parte degli Amici della Terra nello sviluppo del concetto di "spazio ambientale" definito come quantitativo di energia, di risorse non rinnovabili, di territorio, acqua, legname e di capacità di assorbire inquinamento che può essere utilizzato a livello mondiale o regionale pro capite senza determinare danni ambientali. Proprio da questa valutazione potrà derivare l’elaborazione di politiche adeguate ad assicurare lo sviluppo sostenibile ed un’equa condivisione.

L’investimento ecologico dovrà essere indirizzato invece alla riqualificazione edilizia e all’implementazione di sistemi a basso impatto e basso consumo energetico; sviluppare tecnologie basate su fonti rinnovabili; riprogettare le reti di distribuzione dei servizi di pubblica utilità; potenziare le infrastrutture per il trasporto pubblico; ampliare le aree pubbliche quali zone pedonali, spazi verdi, biblioteche; salvaguardare e valorizzare gli ecosistemi.

E’ evidente che raggiungere questi obiettivi sarà una sfida enorme, siamo tuttavia con le spalle al muro e dunque non abbiamo poi molte altre scelte. La nostra unica possibilità è lavorare per questo cambiamento, credendoci fino in fondo.

“L’animale umano è una bestia condannata a morire che, se ha mezzi, compra, compra e compra. E la ragione per cui compra tutto quello che può è l’assurda speranza che fra le molte cose ci sia la vita eterna”. (Tennessee Williams)

Michele Salvadori

domenica 6 marzo 2011

"Come si esce dalla società dei consumi" di Serge Latouche

“Perché dovrei preoccuparmi dei posteri? I posteri si sono mai preoccupati di me?” Il problema del sovracconsumo delle nostre risorse potremmo in effetti anche liquidarlo con questa celebre battuta di Groucho Marx. Il punto, invece serissimo, è che parte di noi oggi sta prendendo alla lettera questa frase.

Eppure già Plinio il Vecchio vaticinava: “Le cose che ci rovinano e ci conducono agli inferi sono quelle che essa (la Terra) ha nascosto nel suo seno, cose che non si generano in un momento… Quanto innocente, quanto felice, anzi perfino raffinata sarebbe la nostra vita, se non altrove volgesse le sue brame, ma solo a ciò che si trova sulla superficie terrestre!”

Il nuovo libro di Serge Latouche - ormai considerato il guru della filosofia della decrescita - dal titolo “Come si esce dalla società dei consumi” (Ediz. Bollati-Boringhieri pp. 205, €. 16,00), ribadisce e sintetizza quanto espresso nelle sue precedenti pubblicazioni sul tema (La scommessa della decrescita e Breve trattato sulla decrescita serena), sia rispondendo alle critiche nel frattempo giuntegli anche da una parte del mondo ambientalista, sia ripercorrendo a ritroso il pensiero dei principali studiosi delle teorie sulla sostenibilità dagli anni ’60 del secolo scorso ad oggi.

Latouche parte da un assunto ormai noto: la società dei consumi di massa è arrivata ad un vicolo cieco. E’ una società che ha la sua base – anzi la sua essenza – nella crescita senza limiti, mentre i dati fisici, geologici e biologici le impediscono di proseguire su quella strada, data la finitezza del pianeta. Secondo Latouche è ormai troppo tardi per porre rimedio ai nostri comportamenti. “Anche se riducessimo la nostra impronta ecologica ad un livello sostenibile, avremmo comunque un innalzamento della temperatura di due gradi entro la fine del secolo. Ormai il problema non è quello di evitare la catastrofe, ma solo di limitarla, e soprattutto di domandarsi come gestirla.”

In questo testo, scritto con un linguaggio accessibile e dal tono divulgativo, l’autore cerca intanto di ricostruire le varie fasi che hanno portato allo sviluppo del consumismo partendo dal lontano 1750 con la nascita del capitalismo occidentale e dell’economia politica. Dal saggio “Ricchezza delle nazioni” in cui Adam Smith professa che l’arricchimento degli uni finirà per avere ricadute positive su tutti, per arrivare agli anni ’50 del ‘900 con la nascita della società dei consumi, quando il sistema libererà tutto il proprio potenziale creativo e distruttivo attraverso i suoi tre principali pilastri: la pubblicità, che crea instancabilmente il desiderio di consumare; il credito, che fornisce i mezzi per consumare anche a chi non ha denaro; l’obsolescenza programmata, che assicura il rinnovamento obbligato della domanda.

Il modello previsto dal Club di Roma nel famoso rapporto "I limiti dello sviluppo" (1972!) e purtroppo rivelatosi fino ad oggi assai attendibile, colloca la fine della società consumistica tra il 2030 ed il 2070. Il sogno a quel punto - a causa della continua crescita di distruzione del nostro ecosistema - si trasformerà in incubo.

Cosa fare, allora? Come uscirne? Latouche - per rispondere alle principali critiche rivoltegli, che accusano la teoria sulla decrescita di essere un’utopia difficilmente realizzabile in quanto il mondo non può essere fermato e ricondotto all’era post-industriale e che inoltre egli contraddice la stessa filosofia dello sviluppo sostenibile in quanto anche quest’ultimo comunque prevede una crescita vigorosa anche se ecologica - afferma che innanzitutto il suo vuole essere uno slogan provocatorio che evidenzi la necessità di praticare una rottura con una società il cui obiettivo è la crescita per la crescita. “Rompere con la società della crescita - afferma Latouche - non vuol dire sostenere un’altra crescita e neppure un’altra economia, significa uscire dalla crescita e dallo sviluppo, e dunque dall’economia, cioè dall’imperialismo dell’economia, per ritrovare il sociale e il politico.” Per farlo dobbiamo perseguire due nuovi obiettivi: la decolonizzazione dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo possibile.

La cosiddetta “crescita verde” a suo parere è un ossimoro: “Certo, con migliori carburanti si brucia meno petrolio e con lampade a basso consumo si consuma meno energia, ma se si fanno girare i motori per più tempo e si accendono sempre più lampade, il problema non è risolto. Nel migliore dei casi allontaneremo il momento del crollo.” In più, mi permetto di aggiungere, se sempre un maggior numero di persone avrà nei prossimi anni accesso a quelle tecnologie che fino a pochi anni or sono erano di esclusiva pertinenza dei popoli occidentali è indubbio che non potremo andare ancora molto lontani. Se i soli cinesi, (per tacere di indiani e brasiliani), la cui popolazione ammonta ad un miliardo e trecento milioni di persone ambiscono, per altro giustamente, allo stesso tenore di vita di noi occidentali, ma le risorse del pianeta sono sempre le stesse, la fetta di torta da spartire sarà inevitabilmente sempre più piccola.

La soluzione proposta è naturalmente molto articolata e di difficile sintesi (vi rimando alla lettura del libro). Latouche richiama il pensiero di tutti i principali teorici della società del dopo sviluppo, da Geogescu-Roegen, a Illich, a Castoriadis, a Gorz e sostiene come la nostra crisi sia fondamentalmente culturale e di civiltà. Egli si rende conto di quanto sia difficile per noi prendere coscienza del fatto che l’economia è una religione dalla quale dobbiamo per forza di cose affrancarci e ripropone la sua ipotesi societaria ispirata ai principi di sobrietà delle cosiddette “8 R”: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare.

Consapevole dell’impossibilità di realizzare questo profondo processo di trasformazione in tempi brevi, Latouche propone una sorta di società di transizione che dovrà intanto indirizzarsi sui seguenti 10 punti programmatici:

1. Ristabilire un’impronta ecologica sostenibile
2. Ridurre i trasporti internalizzando i costi attraverso ecotasse adeguate

3. Rilocalizzare le attività

4. Ristabilire l’agricoltura contadina

5. Ridistribuire i profitti ricavati dall’aumento di produttività per ridurre il tempo di lavoro e creare occupazione

6. Rilanciare la produzione dei beni relazionali

7. Ridurre gli sprechi di energia di un fattore 4

8. Ridurre sostanzialmente lo spazio pubblicitario

9. Riorientare la ricerca tecnico-scientifica

10. Riappropriarsi del denaro

Tra le soluzioni proposte vi è quella dell’abbandono della moneta unica a vantaggio di singole “monete regionali” (non necessariamente convertibili l’una con l’altra), adottabili in una fascia di popolazione compresa tra le diecimila e il milione di persone che realizzi un buon equilibrio tra efficienza e resilienza (capacità di rigenerarsi) e che potrebbe concretamente contribuire alla nascita di tante bio o eco-regioni. Pensiamo ad esempio all’ importanza strategica che avrebbero anche la sola distribuzione ed il consumo di prodotti a Km. zero ed esclusivamente di carattere stagionale. Sarebbe poi davvero un grande sacrificio per noi rinunciare all’acquisto delle ananas del Costa Rica?

E’ evidente però – Latouche ne è consapevole - che gli interessi in gioco sono enormi e che la sua proposta è destinata ad ottenere scarsa approvazione, almeno per adesso. Si tratta di proporre un modello culturale totalmente nuovo. La società della decrescita dovrà ispirarsi al contrario di quella attuale allo spirito del dono. Si dovrà tentare di sostituire alla mentalità predatrice nei rapporti con la natura, i valori dell’altruismo, della reciprocità, della convivialità e del rispetto dell’ambiente. Secondo la bella metafora di Kenneth Boulding e ripresa da Andrea Segrè nel suo “Lezioni di ecostile” (Ediz. B. Mondadori) - altro interessante testo che mi permetto di suggerire – dovremmo sostituire all’economia del cow-boy, fondata appunto sullo sfruttamento illimitato delle risorse naturali, l’economia del “cosmonauta”, con la Terra concepita come un’unica grande navicella spaziale provvista di riserve limitate, dove l’uomo deve trovare il suo posto come elemento di un sistema ecologico complesso.

Un intero capitolo dell’opera, Serge Latouche lo dedica a quello che egli considera uno dei suoi principali maestri ed ispiratori, Ivan Illich. Secondo Illich la scomparsa della società della crescita non è necessariamente una cattiva notizia. Essendo costretto a vivere diversamente, l’uomo potrà vivere finalmente meglio lavorando e consumando meno secondo la sua teoria della “sussistenza moderna”. In particolare il testo si sofferma ad analizzare il concetto espresso da Illich e definito con il termine di “decolonizzazione dell’immaginario”, uno dei principi cardine - per Latouche - della nuova mentalità, che dovrà contraddistinguere la nuova economia della decrescita. L’uomo dovrà riconcettualizzare, ridefinire, ridimensionare, nell’ottica della decrescita, anche i propri concetti di ricchezza e di povertà. Ad esempio lo sfruttamento delle fonti di energia fossili permette una straordinaria svalorizzazione del lavoro umano con il risultato di una sovrabbondanza artificiale facilmente riscontrabile nei nostri ipermercati. Una delle conseguenze di tutto questo è la cosiddetta banalizzazione delle “meraviglie”. Pensiamo all’utilizzo ormai inflazionato in campo pubblicitario dei superlativi assoluti (altissima, purissima, ecc.) e degli aggettivi quali straordinario, eccezionale, strepitoso, ecc. Quante volte ci capita di leggere sulla locandina che pubblicizza una pellicola appena uscita al cinema: ecco il film dell’anno! Ma quanti film dell’anno ci sono propinati nell’arco di un solo anno… li avete mai contati?!

Latouche riprende poi, e lo fa proprio, anche un altro aspetto del pensiero di Illich, quello di dura critica alla scuola come istituzione. A suo parere il modello educativo proposto oggi è responsabile dell’eliminazione nelle menti dei giovani di quelle difese immunitarie necessarie a resistere al sistema economico. “La maggioranza delle persone – scrive Illich – impara nella scuola non soltanto l’accettazione del proprio destino, ma anche il servilismo”. A riguardo, e a distanza di oltre un ventennio dalle conclusioni di Illich, il bel saggio-provocazione di Paola Mastrocola, “Togliamo il disturbo” (Ediz. Guanda) ne è purtroppo una conferma. Dobbiamo dunque avviare un processo di disintossicazione che deve necessariamente partire proprio dalla scuola. Secondo uno studio realizzato in Belgio nel 2008, su tremila allievi della scuola secondaria (licei, istituti tecnici e professionali) solo il 45% sa cos’è una energia rinnovabile; quasi nove allievi su dieci ignorano le cause del riscaldamento climatico; più del 60% confonde l’effetto serra con il buco nello strato di ozono; non parliamo poi del concetto di impronta ecologica, pressoché ignorato dalla maggioranza degli studenti… Le nuove generazioni si trovano culturalmente disarmate. Su questo punto voglio però in parte dissentire dal pensiero dell'autore. Per ragioni professionali negli ultimi anni ho avuto il piacere e la fortuna di collaborare con un certo numero d'insegnanti di scuola di ogni ordine e grado. Ho conosciuto persone attente e sensibili a queste tematiche che si sforzano quotidianamente di svilupparle coinvolgendo gli allievi. Purtroppo però costoro rappresentano ancora una minoranza.
Non parliamo poi dei genitori. Secondo un sondaggio Gallup del 2009 il 41% degli statunitensi pensa che l’allarme sul riscaldamento climatico sia esagerato dai media. Nel 2008 la percentuale sullo stesso campione di cittadini era del 35%... Sarebbe ingiusto addossare alla sola istituzione scuola, sostiene dunque Latouche, la responsabilità di questo stato delle cose. Oggi i genitori hanno abbandonato, per ragioni diverse, il loro ruolo di educatori, delegandolo alla scuola e più ancora alla televisione: il sistema pubblicitario occupa lo spazio abbandonato dai genitori e che la scuola non riesce a riempire. La scuola oggi deve cessare di trasmettere la religione della crescita e formare invece cittadini in grado di pensare con la propria testa.

Le generazioni future dovranno creare una società autonoma dai vecchi schemi. Illich propone quello da lui definito come “tecnodigiuno ascetico” : “Proviamo a rinunciare a qualcosa, non per abbellire la nostra vita ma per ricordare a noi stessi quanto siamo attaccati a questo mondo moderno”.

Per uscire dalla società dei consumi e realizzare quella della decrescita è indispensabile uscire dal suo regime di “cretinizzazione civica” , denunciare l’aggressione pubblicitaria e combattere quello che Cornelius Castoriadis, altro pensatore caro a Latouche, chiama “l’onanismo consumistico e televisivo”.

In buona sostanza Latouche auspica una rivoluzione culturale che porti a quei mutamenti indispensabili per la sopravvivenza della nostra specie sul pianeta. Anch’egli giudica la crisi economica come un buon presupposto se faciliterà l’uscita dalla religione della crescita ed in particolare - ed a dimostrazione che forse il progetto che egli propone è meno utopistico di quanto possa apparire ad un primo approccio - indica come modello di società da seguire quello delle cosiddette Città di Transizione, nato in Irlanda e che si sta diffondendo nel Regno Unito, come forma di costruzione che più si avvicina a una società urbana improntata alla filosofia della decrescita. Queste città puntano in primo luogo all’autosufficienza energetica in previsione della fine delle fonti di energia fossile.

Non so quanto la sua proposta sia in concreto realizzabile, ciò nonostante è indubbio che le teorie di Latouche meritino rispetto ed attenzione soprattutto perché almeno costituiscono un punto di partenza, una base utile ad avviare il dibattito sulla costruzione di nuovi modelli societari, nuovi stili di vita ai quali la specie umana dovrà prima o poi obbligatoriamente adattarsi.

Michele Salvadori