lunedì 6 dicembre 2010

L' Ecopragmatismo di Stewart Brand

Capita ormai con una certa frequenza di assistere a dichiarazioni pro-nucleare da parte di personalità autorevoli del mondo della cultura scientifica ed in alcuni casi, addirittura, a manifesti cambiamenti di rotta da parte di qualcuno che, fino a poco tempo fa, se ne dichiarava un acerrimo nemico.

In Italia ha suscitato grande clamore la scelta a favore di questa tecnologia da parte del Professor Umberto Veronesi, e sono proprio di ieri le dichiarazioni di James Hansen, astrofisico e docente di Scienze della Terra alla Columbia University, che ha ribadito di sostenere il nucleare in quanto, ad oggi, non siamo in possesso di tecnologie alternative migliori per attenuare il cambiamento climatico in atto causato, anche, dall’uso dei combustibili fossili.

L’occasione di affrontare questo tema mi è venuta dalla lettura di un testo uscito da poco in Italia dal titolo: “Una cura per la Terra – Manifesto di un ecopragmatista” (Codice Edizioni, pp.350, €. 23,00) di Stewart Brand, tra i fondatori del movimento ambientalista americano e che, da convinto oppositore del nucleare, cerca di spiegare nel suo testo perché ha cambiato idea a riguardo.
In USA il libro ha suscitato grandi polemiche anche perché l’autore non si limita solo ad appoggiare il nucleare ma parla anche a favore degli organismi geneticamente modificati (OGM).
E’ notoria la posizione degli Amici della Terra contro queste due tecnologie e dunque perché affrontare una simile lettura?
Sono profondamente convinto che sia importante provare ad ascoltare chi ha idee diverse dalle nostre: ciò può avere una doppia utilità: rafforzare le nostre convinzioni migliorandole oppure al contrario ravvederci finchè siamo in tempo a farlo.
E’ con questo spirito che ho affrontato una lettura in parte faticosa, a volte eccessivamente tecnica per le mie conoscenze, ma talvolta davvero stimolante e costruttiva.

Brand non è un ciarlatano e, consapevole delle critiche che potranno piovergli addosso a seguito delle proprie tesi, cerca di prevenirle smontando pezzo per pezzo e con assoluta rigorosità scientifica tutte le potenziali argomentazioni sulle tematiche che affronta.
Egli parte da un presupposto condivisibile ed ormai indiscutibile: il cambiamento climatico sulla Terra è in atto e l’uomo deve trovare delle soluzioni al problema, non per risolverlo, operazione ormai impossibile, ma quanto meno per attenuarlo.
Brand fa anche un’altra affermazione che condivido: il problema esiste per la specie umana; la Terra in ogni caso se la caverà. La questione dunque non è salvare il pianeta, ma preservare le attuali specie viventi.

Gli studi geologici dimostrano che 55 milioni di anni fa l’attuale Mar Glaciale Artico aveva una temperatura media di 23 °C e che l’intero pianeta probabilmente era caratterizzato da un clima tropicale. Il rischio per noi è quello di tornare a quello stato di cose.
Le strategie suggeriteci per affrontare il cambiamento climatico sono tre.
Mitigazione: attraverso la riduzione delle emissioni ad effetto serra.
Adattamento: attraverso lo spostamento delle popolazioni costiere verso nord, lo sviluppo di colture resistenti alla siccità e prepararsi ad accogliere masse di rifugiati ambientali.
Miglioramento: attraverso interventi di geoingegneria su larga scala (nell’ultima parte del suo libro Brand ne fa un lungo elenco).

Il problema siamo noi, dicevamo: attualmente l’uomo consuma circa 16 terawatt di elettricità, gran parte della quale proviene dall’utilizzo di combustibili fossili: è come lasciare accese 160 miliardi lampadine da 100 watt senza spegnerle mai!

Per mantenere il livello di concentrazione di CO2 sotto i limiti di non ritorno dovremmo riuscire a produrre elettricità da combustibili fossili per appena 3 terawatt; il che significa che dovremmo produrre tutto il resto dell’elettricità di cui abbiamo bisogno attraverso fonti non fossili e soprattutto che dovremmo riuscirci al massimo entro i prossimi 25 anni.

Brand cita alcuni esempi pratici a riguardo.
Per ottenere 2 terawatt di fotovoltaico dovremmo installare 100 metri quadrati al secondo di celle solari per i prossimi 25 anni, per 2 terawatt di solare termodinamico 50 metri quadrati al secondo, per 2 terawatt di biocarburanti 4 piscine olimpiche di alghe geneticamente ingegnerizzate al secondo, per 2 terawatt di eolico una turbina eolica di 90 metri di diametro ogni 5 minuti, per 2 terawatt di geotermico 3 turbine a vapore da 100 megawatt ogni giorno e per 3 terawatt di nucleare una centrale da 3 gigawatt con 3 reattori alla settimana, il tutto sempre moltiplicato per 25 anni!

“Una cura per la Terra” si propone di offrire una serie di strumenti di cui gli ambientalisti hanno sempre diffidato ma che oggi, a parere dell’autore, sono indispensabili se vogliamo fare qualcosa per salvaguardare il futuro della nostra specie.

Nel capitolo dedicato al tema dell’urbanizzazione, Brand sostiene che le città sono fonte di ricchezza, assorbono popolazione e contribuiscono ad aumentare la capacità portante della Terra. Le città sono costose sia a livello ambientale che economico, ma i ricavi sono di gran lunga superiori ai costi. Nelle aree urbane promuovere nuove forme di produzione del reddito risulta molto più semplice, e fornire servizi è decisamente più economico: basta pensare all’istruzione, alla sanità, alle condizioni igieniche, acqua, energia elettrica: su base procapite tutto è decisamente più semplice ed economico. Brand, a sostegno della sua tesi cita la “Legge di Kleiber”: maggiori sono le dimensioni degli organismi, maggiore è la loro efficienza metabolica.

Per le città è lo stesso: riunire le persone rende tutto più efficiente, si richiede una quantità leggermente inferiore di tutto per ciascuno. Le città possono addirittura rappresentare un calmiere per il controllo demografico. Le statistiche infatti dimostrano come il calo delle nascite sia più sensibile nelle metropoli piuttosto che nelle zone scarsamente abitate del pianeta. Nelle aree urbane infatti il contributo economico dei bambini è praticamente assente e, man mano che le donne colgono sempre maggiori opportunità economiche, il costo sociale della procreazione aumenta.

E’ partendo da questo presupposto che Stewart Brand cerca di sviluppare il suo concetto di nuova “ecologia Urbana” come una delle potenziali soluzioni ai problemi dell’inquinamento.

Quando si tratta di cambiamento climatico, le persone più informate sono le più spaventate, mentre nel caso del nucleare i più informati sono i meno spaventati.
E’ con questo incipit che Brand affronta il capitolo più discusso del suo libro, ovvero quello dedicato al nucleare. Egli ammette di aver fatto parte fino a pochi anni fa della nutrita schiera di ambientalisti contro il nucleare e di aver cambiato idea a riguardo dopo aver visitato il deposito di scorie di Yucca Mountain (di recente il governo americano ne ha stabilito la chiusura definitiva). A parere dello scienziato americano il principale argomento usato contro il nucleare ovvero quello della gestione delle scorie, ha poco senso in quanto il principale errore in cui incorrono gli ambientalisti è quello di ragionare sempre in termini di contemporaneità del problema. Allo stato attuale le scorie possono, lo ammette, costituire un problema, ma come possiamo pensare che la tecnologia dell’uomo sia la stessa tra 200 anni quando, e solo allora, potenzialmente le scorie potranno divenire pericolose? Inoltre fa accenno ad una nuova strategia in via di sviluppo che prevede in un futuro prossimo l’impiego di trivellazioni a grande profondità (4-5 chilometri), dove nello strato roccioso l’acqua è molto salina e dove stipare le barre di carburante, dimenticandosi del problema. Egli inoltre sostiene che i nuovi reattori sono costruiti con tecnologie in grado di garantire quella sicurezza degli impianti che in passato non c’era. Sul problema dei costi eccessivi di realizzazione egli sostiene che in realtà il vero problema è rappresentato dai costi troppo bassi del carbone e a riguardo anch’egli si dichiara a favore della istituzione di una “carbon tax” ovvero di una tassa sulle emissioni di gas serra i cui ricavi siano però da subito utilizzati a vantaggio dei cittadini e ad incentivo di tutte le tecnologie “pulite”. Inoltre se è vero che una centrale nucleare ha costi esorbitanti nella sua fase di avvio è altrettanto vero che i suoi costi operativi risultano poi molto inferiori se paragonati a quelli delle centrali a carbone o a gas. I cosiddetti reattori di IV generazione saranno alimentati a torio, tre volte più abbondante dell’uranio, che non può essere fuso, non è utilizzabile per la fabbricazione delle armi e genera pochi rifiuti, con costi di costruzione ed esercizio inferiori, maggiore efficienza, ed infine alte temperature in grado di generare idrogeno e desalinizzare l’acqua.

In buona sostanza, Brand, come del resto anche J. Hansen, sostiene che, in mancanza di meglio, il nucleare in questo momento storico può rappresentare un’alternativa valida, una delle possibili soluzioni, certo non l’unica, per cercare di attenuare le problematiche connesse alle emissioni di gas serra, partendo anche dalla constatazione che le attuali energie alternative, come l’eolico ed il solare, ad oggi non sono in grado di garantire quella continuità di produzione indispensabile ad esempio alle città che necessitano di una rete elettrica che fornisca costantemente energia.

Le obiezioni che mi sento di fare a Brand riguardano tre aspetti. Il primo lo inquadro nel contesto italiano. Il nostro paese non ha depositi di uranio e dunque con la costruzione di centrali nucleari forse diminuiremo il nostro impatto sull’ambiente, certo non quello della dipendenza economica da altri Paesi, dai quali dovremo inevitabilmente acquistare il combustibile necessario al funzionamento delle nuove centrali. Il secondo punto riguarda l’annosa questione della gestione delle scorie: giudico un po’ troppo semplicistica l’ipotesi secondo cui tra 200 anni, ciò che oggi rappresenta un problema, l’uomo lo avrà probabilmente affrontato e risolto. Inoltre, purtroppo, inevitabilmente la tecnologia nucleare sarà una tecnologia selettiva, legata a specifiche competenze che di fatto continueranno a dividere il pianeta tra Paesi in grado di gestirla e trarne grossi profitti economici ed altri condannati a subirla, pagandone le conseguenze politiche, sociali ed economiche.

Lo scrittore affronta poi la delicata questione OGM.
Anche in questo caso egli cita un lungo elenco di casi e situazioni a vantaggio delle proprie tesi. Invito gli interessati a leggersi con calma il libro per poter valutare concretamente le posizioni di Brand. Mi limito, per ovvie ragioni di spazio a citare solo alcuni dei tanti esempi che egli fa.

E’ in corso – afferma S. Brand – dal 1996 il più grande esperimento dietetico della storia. Un immenso gruppo di persone – l’intera popolazione del Nord America – ha avuto il coraggio di iniziare a mangiare grandi quantità di cibi geneticamente ingegnerizzati. (….) Nel frattempo, il gruppo di controllo (la popolazione europea) ha fatto il considerevole sacrificio economico di fare a meno di queste colture e si è anche preso il disturbo di vietare tutte le importazioni di questi alimenti. (….) Ora i risultati sono pronti e incontrovertibili. Il gruppo sperimentale ed il gruppo di controllo non presentano differenze.”

Lo stesso Brand cerca di spiegare come nella vita di tutti i giorni siamo costantemente invasi da continui esempi di modificazioni genetiche senza che queste ci mettano in allarme: non proviamo alcuna repulsione al pensiero di un mulo, un incrocio innaturale tra un cavallo ed un asino; senza contare che la più grande impresa d’ingegneria genetica dell’umanità, la conversione di un’erba poco utile, nella piante alimentare più popolare del mondo, il mais, è stata realizzata dagli indiani pre-colombiani.

Ogni processo nella biosfera è influenzato dalla capacità dei microbi di trasformare il mondo attorno a loro. Sono i microbi che convertono gli elementi chiave della vita – carbonio, azoto, ossigeno e zolfo – in sostanze accessibili a tutte le altre forme viventi. “Ogni pochi minuti – sostiene ancora Brand – tutti i microbi del nostro corpo (e negli oceani, nel suolo e nell’aria) sfidano le precauzioni e Dio compiendo un atto illecito in Europa: si scambiano geni nell’infinita ricerca di vantaggi competitivi o collaborativi.”

Gli ingegneri genetici non hanno inventato niente - sempre secondo la tesi di Stewart Brand- ma preso in prestito la ricombinazione genetica. Immaginiamo di essere in un bar e di sfiorare un ragazzo dai capelli verdi e così acquisire parte del suo codice genetico. Usciremo dal bar con i capelli verdi e saremo in grado di passare il gene dei capelli verdi anche ai nostri figli. I batteri compiono di continuo questo tipo di acquisizione rapida dei geni. Talvolta gli esempi della natura possono essere estremamente costruttivi per noi. Di recente, gli scienziati stanno provando ad imitare quel miracoloso bioreattore presente nell’intestino delle termiti, dove la complessa colonia batterica che vi risiede è in grado di trasformare un foglio di comune carta in oltre 1,5 litri di idrogeno.

In effetti, se pensiamo alle potenziali applicazioni che potrebbe avere la ripetizione di questo processo su larga scala, debbo ammettere che in questo caso egli avrebbe ragione.

Per Brand, però, il dichiararsi a favore dell’ingegneria genetica non significa essere contrari all’agricoltura biologica cui vengono riconosciuti comunque grandi meriti. Anzi egli arriva a suggerire che probabilmente la soluzione ideale sarà proprio quella di riuscire a combinare in un prossimo futuro le due tecnologie: l’ingegneria genetica potrà essere utilizzata per produrre semi con una migliore resistenza a parassiti e patogeni, mentre l’agricoltura biologica potrà gestire il complesso dei parassiti in modo più efficace riducendo al contempo l’impatto dei concimi di sintesi, degli erbicidi e dei pesticidi sui suoli, le acque e la fauna.

Il testo non manca di accenni polemici contro il mondo ambientalista accusato dall’autore di essere troppo legato alle proprie ideologie e di non essere disposto a modificarle anche di fronte all’evidenza dei fatti. Anche in questo caso, lo riconosco, non tutte le accuse sono peregrine.
Al contempo però egli giudica comunque ancora prezioso il ruolo che gli ambientalisti potranno intraprendere nell’immediato futuro a patto di abbandonare la vena eccessivamente romantica che contraddistingue da sempre parte del movimento e che tende ad essere in genere pessimista.

Gli ambientalisti romantici, secondo Brand, hanno la tendenza a provare un certo disagio nei confronti di chi tenta di risolvere i problemi dato che l’essenza della tragedia è proprio il fatto di non poterla risolvere. E i romantici amano i problemi…
E d’altro canto anche gli ambientalisti romantici hanno un ruolo: quello di attrarre le persone attorno a se, quello di riuscirle a coinvolgerle emotivamente e dunque ad ispirarle.

Secondo Brand il nuovo ambientalismo pragmatico dovrà cercare di coinvolgere sempre più altre due categorie: gli scienziati che scoprono i problemi e gli ingegneri che in genere i problemi provano a risolverli.
In buona sostanza, l’ecopragmatismo suggerito da Brand invita tutti noi ad ampliare il campo di osservazione con cui valutare le nostre attività a favore della salvaguardia del pianeta. Ciò che facciamo, le attività nelle quali ci stiamo impegnando andrà ben oltre la durata della nostra vita e potrà riguardare il futuro di centinaia di generazioni. E’ con questa ottica che dobbiamo valutarlo.

Dobbiamo avere il coraggio di ripensare e mettere sempre in discussione le nostre idee; questo alla fine il messaggio che mi sento di condividere con l’autore del libro.

Forse qualcuno di noi ha gridato troppo spesso al lupo, al lupo, con il risultato di veder screditata la propria attendibilità come profeta di sventure; forse un pizzico di ottimismo in più in quanto facciamo potrebbe essere di aiuto a tutti nel lungo percorso che ci attende; resta però in me la convinzione che un sano principio di precauzione debba essere sempre applicato da chiunque, anche dagli eco-pragmatisti.

Philip Tetlock, psicologo e politologo ha scritto: “Come pensi, conta più di ciò che pensi”.

Michele Salvadori

venerdì 22 ottobre 2010

La Seconda Conferenza nazionale sull'efficienza energetica

                         
Da alcuni anni gli Amici della Terra, di cui mi onoro di far parte, stanno realizzando una serie di incontri, conferenze, convegni a tema, che col passare del tempo assumono una rilevanza, un livello qualitativo ed un riscontro – per fortuna – sempre maggiori.

Ciò è senza dubbio non dovuto al caso ma ad un costante impegno, ad una professionalità, un’accuratezza nelle ricerche e un’obiettività delle analisi, opportune e quanto mai attuali nelle scelte sulle problematiche da affrontare.
L’ultima delle tante iniziative si è tenuta martedì 19 ottobre a Roma nella Sala Conferenze di piazza Montecitorio dove appunto è stata organizzata la Seconda Conferenza nazionale sull’efficienza energetica sul tema: “Integrare l’efficienza energetica con le rinnovabili”.

Nell’occasione è stato presentato dagli Amici della Terra un corposo Rapporto dal titolo: “Prospettive delle politiche di efficienza energetica. Opportunità per l’Italia” a cura di Andrea Molocchi in collaborazione con Monica Tommasi.
Per ragioni di completezza chi volesse potrà interamente consultarlo cliccando qui .

Il testo prende spunto da un dato di fatto: è in corso un cambiamento climatico che richiede una risposta a livello globale. Le emissioni di gas serra debbono ridursi al più tardi entro il 2020 e raggiungere almeno il 50% dei livelli del 1990 entro il 2050.
Che fare?
Secondo Giovanni Milani, amministratore delegato di Enipower SpA, le stime mostrano come, ancora al 2030, i combustibili fossili continueranno a coprire l’80% del fabbisogno energetico del pianeta.
Non esistono ad oggi di fatto alternative più economiche e di più semplice utilizzo. Questo significa che se da un lato l’uomo dovrà sforzarsi di ampliare la ricerca sulle nuove fonti energetiche, dall’altro sarà indispensabile, nell’immediato, concentrarci sulla strada dell’efficienza che presenta ancora grandi margini di miglioramento e rappresenta da sola forse la risposta più concreta alla riduzione delle emissioni.

Un primo dato d’interesse che emerge dal Rapporto degli Amici della Terra evidenzia come nonostante l’Italia risulti ancora oggi tra i primi Paesi europei in termini di efficienza energetica addirittura davanti a Spagna, Germania e Francia, tale posizionamento va interpretato più per quanto fatto dal nostro paese in passato (all’epoca della prima grande crisi energetica negli anni ’70) che per quanto essa abbia realizzato negli ultimi anni.
Questo significa che non possiamo continuare a guardarci allo specchio ma dobbiamo piuttosto agire.

Sempre in base alle stime del Rapporto AdT il complesso dei consumi energetici nel nostro Paese ammonta a 161 miliardi di euro, di cui 119 dovuti alle attività produttive (agricoltura, industria e servizi) 33 miliardi dovuti ai consumi delle famiglie e 8 miliardi a causa delle esportazioni.
Nel 2009 la legge “sviluppo” aveva previsto che il Ministero dello Sviluppo Economico varasse un Piano straordinario per l’efficienza e il risparmio energetico entro la fine dello stesso anno. Ad oggi stiamo ancora aspettando.

Sul piano produttivo e tecnologico tuttavia l’Italia risulta già in grado di apportare significative trasformazioni:
- In edilizia, settore nel quale probabilmente si realizzano i maggiori sprechi energetici, e forse campo nel quale il potenziale di risparmio risulta più elevato e le tecnologie molteplici: dall’impiantistica ad alta efficienza, alla scelta dei materiali in grado di ridurre le dispersioni energetiche, all’isolamento termico degli edifici, ai sistemi di illuminazione, senza dimenticare il settore degli elettrodomestici dove si sono concentrati maggiormente gli sforzi di informazione al consumatore e di incentivazione economica.
- Nel terziario (comprensivo dei settori commercio e servizi, inclusa la pubblica amministrazione) dove il maggior potenziale di miglioramento riguarda la climatizzazione mediante le pompe di calore, gli elettrodomestici e l’illuminazione.
- Nell’industria dove dovrà essere intensificata la sostituzione del parco motori elettrici con pompe, ventilatori e macchine utensili ad alta efficienza; altro intervento egualmente rilevante sarà quello volto a ridurre le perdite di rete attraverso migliorie al processo di distribuzione, al rifacimento delle linee ed all’avvicinamento degli impianti produttivi ai centri di utenza.
- Nel settore dei trasporti passeggeri, attraverso lo spostamento della domanda di mobilità verso il trasporto su rotaia, ma anche a quello pubblico su strada (autobus ecologici a basso consumo), e al settore della mobilità privata dove il regolamento (CE) 443/2009 per la riduzione delle emissioni di CO2 delle auto (obiettivo 130 gCO2/Km al 2015) sta determinando una forte accelerazione dei programmi di industrializzazione. A tal riguardo una particolare menzione merita la nostra FIAT che risulta essere prima nella graduatoria per media di emissioni CO2 (g/Km) per auto prodotte con un valore medio di 127, 8.
- Nel settore del trasporto merci che necessita, secondo Amici della Terra, interventi analoghi a quanto realizzato nel settore auto che siano di stimolo a processi virtuosi.

Il Rapporto dedica inoltre un riquadro specifico al trasporto marittimo che risulta l’unico grande settore ancora fuori dal controllo delle emissioni e che invece presenterebbe notevoli potenziali di miglioramento.

Grazie al meccanismo degli incentivi e delle detrazioni fiscali il settore dell’edilizia residenziale è senza dubbio quello dove si sono ottenuti in questi anni i maggiori risultati e non è un caso che gli Amici della Terra in occasione di questa conferenza abbiano rimarcato sul fatto che i due principali strumenti di incentivazione dell’efficienza energetica oggi disponibili nel nostro paese (detrazioni fiscali del 55% per la riqualificazione energetica degli edifici, meccanismo dei certificati bianchi) si concentrino sul settore civile, mentre nel settore industriale manchino stimoli sufficienti per conseguire elevati risparmi energetici. In base all’ultimo rapporto sui certificati bianchi, pubblicato dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas, appena il 15% circa dei risparmi certificati dal 2005 al 31/5/2010 riguarda l’industria, contro l’80% del settore civile.

Un importante capitolo del Rapporto è dedicato alla proposta di Confindustria per il Piano straordinario di efficienza energetica e per il quale rimando, per ragioni di spazio, alla lettura del Rapporto stesso, ma che in estrema sintesi, attraverso la sua riformulazione da parte degli Amici della Terra con l’inclusione dei benefici economici per il sistema sanitario e gli oneri pubblici relativi alle quote di CO2 presenta i seguenti risultati:
- Saldo per il bilancio dello Stato: -7,8 miliardi
- Benefici per gli utenti (risparmi economici nella spesa energetica): +25,6 miliardi

- Benefici ambientali per la collettività (al netto della componente Stato): +10,8 miliardi

- Benefici per il sistema economico nazionale (valore aggiunto degli interventi): + 116,1 miliardi

con un risultato netto a vantaggio del sistema paese di circa 145 miliardi di euro.

Vengono analizzate poi le potenzialità insite nel sistema dei cosiddetti trasporti ad alta efficienza e le misure per il miglioramento dell’efficienza energetica, soffermandosi poi, in tema di strumenti d’incentivazione dell’efficienza, sulla necessità di apportare alcune migliorie tra cui, ad esempio, quella di correggere la misura che consente di beneficiare delle agevolazioni ai soli “utilizzatori” dell’immobile impedendo di fatto che il proprietario di un edificio possa finanziare, col consenso o su iniziativa degli inquilini, un intervento di risparmio energetico.

Il capitolo dedicato al cosiddetto sistema dei "Certificati bianchi" mette in luce come dall’avvio del meccanismo (1° giugno 2005) al 31 maggio 2010 è stata approvata l’emissione di certificati pari a 6,645 Mtep evidenziando quest’ultimo come probabile sistema di punta per il conseguimento degli obiettivi di risparmio energetico previsti al 2020.

Le conclusioni del Rapporto evidenziano come le misure di efficienza energetica siano molto convenienti per la collettività in quanto, a fronte dell’investimento iniziale, i risparmi a lungo termine delle famiglie libereranno risorse per consumi più sostenibili, ridurranno i costi delle imprese, liberando risorse per retribuzioni, investimenti e innovazione, dando sviluppo alla cosiddetta "green economy".
Inoltre l’efficienza energetica, se applicata, rappresenta un importante ausilio alla collettività in quanto riduce i costi climatici e sanitari della produzione di energia, in genere e prevalentemente associati ai combustibili fossili.

Nonostante questo – sostengono tuttavia gli Amici della Terra – l’attuale sistema degli incentivi va rivisto e corretto; gli attuali incentivi per le rinnovabili elettriche, troppo elevati, aprono spazi di speculazione e vanno sostanzialmente a finanziare la diffusione di tecnologie estere, come i pannelli fotovoltaici cinesi, la maggior parte delle tecnologie per l’efficienza sono già oggi offerte dall’industria nazionale, che potrebbe quindi avvantaggiarsi da un rilancio delle misure di sostegno, rafforzando il suo posizionamento competitivo, in Italia e all’estero.
Per ottimizzare il raggiungimento degli obiettivi europei al 2020, occorre una regia capace di razionalizzare gli incentivi per le rinnovabili elettriche e potenziare gli interventi di efficienza energetica, ivi inclusi quelli per le rinnovabili termiche, assai meno onerosi e ricchi di opportunità sotto ogni profilo, anche ambientale.

Certo non si può non considerare il principale scoglio a tutto questo: il costo di incentivazione dell’efficienza energetica quantificato da Amici della Terra in circa 24 miliardi di euro per il periodo 2010-2020 recuperabile in almeno due terzi attraverso il maggior gettito netto, ma che comunque presenta un conto di poco meno di un miliardo di euro all’anno.

Le tecnologie utilizzabili per il miglioramento dell’efficienza energetica riguardano praticamente tutti i settori della nostra economia. Nel corso della conferenza sono stati illustrati alcuni tra i principali casi studio sviluppati attualmente in Italia:
dalle pompe di calore per la climatizzazione che sfruttano l’energia rinnovabile a bassa temperatura; alla cogenerazione; agli impianti a ciclo Rankine a fluido organico per generazione elettrica da recupero di calore; alla integrazione di solare termico e caldaie ad alta efficienza; al teleriscaldamento; all’isolamento termico degli edifici; ai veicoli passeggeri e merci ad alta efficienza; ai servizi per la diagnosi e la gestione del risparmio energetico: sono solo alcune delle proposte dell’industria italiana nelle tecnologie e nei prodotti dell’efficienza, proposte che si stanno affermando -anche a livello internazionale- in un paese privo di fonti fossili e dal territorio scarso e delicato sotto il profilo ambientale e paesaggistico. Un paese che ricerca una maggiore competitività anche riducendo i costi esterni ambientali, che vuole risparmiare sui costi dell’energia, ridurre le emissioni di gas serra, e che vede nuove prospettive per un’occupazione stabile e qualificata.
Ora sta alla politica – ribadisce il Rapporto degli Amici della Terra - decidere se queste opportunità industriali devono rimanere residuali o se, invece, possono costituire un sistema vincente per diventare leader dell’efficienza energetica, un settore -trasversale a tutta l’economia- in cui tutto il mondo dovrà investire il massimo di risorse negli anni a venire.

Desidero infine chiudere con alcune brevi considerazioni di carattere personale. Nel corso degli interventi della conferenza, oltre a ribadire la necessità di apportare correzioni migliorative al meccanismo degli incentivi, da più parti è stata sollevata anche la questione di una scarsa predisposizione culturale da parte degli italiani ad accogliere queste nuove proposte e sulla grande importanza di contribuire alla diffusione ed alla conoscenza di queste nuove tecniche e pratiche alfine di concorrere ad un cambiamento di mentalità considerato da tutti indispensabile per il raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Alcuni sono ricorsi ad esempi molto elementari.
L’Amministratore Delegato di Enipower ha citato la campagna “Eni si toglie la cravatta” per ridurre il consumo degli impianti di aria condizionata, sollecitato l’utilizzo di lampadine a risparmio energetico, e ha infine suggerito di abbassare di 1 °C la temperatura dei termostati per il riscaldamento delle nostre abitazioni; Alessandro Ortis, Presidente dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, ha invitato ad un maggiore coinvolgimento delle scuole in queste pratiche ed alla lettura, a fini didattici e di sensibilizzazione, da parte degli studenti delle bollette della loro scuola; Giovanni Lelli, Commissario ENEA, ha invece suggerito d’insegnare la pratica della raccolta differenziata agli studenti delle scuole.

Come Amici della Terra tutto questo lo stiamo facendo da ormai molti anni. Abbiamo iniziato nel 1998 a portare nelle scuole un progetto "The Bet - La Scommessa" che si basava proprio sulla messa in pratica di tutti questi suggerimenti rivolti innanzitutto agli studenti ma non solo a questi.
Trovo conforto nel fatto che di questi temi parlino oggi anche i vertici delle più importanti aziende italiane.
Come si dice: meglio tardi che mai.
E trovo egualmente rilevante che alcuni tra i protagonisti di un’iniziativa di spessore come questa conferenza, che ha coinvolto il mondo della politica e dell’industria, abbiano voluto evidenziare l’importanza di stabilire un contatto stabile tra il mondo dei tecnici e quello che la nostra Presidente, Rosa Filippini, ha definito “il mondo che un tempo era chiamato della casalinga di Voghera”.
Ritengo che proprio questo compito di coniugare due realtà ancora oggi tanto distanti, il mondo della tecnologia in cui l’Italia dimostra di avere grandi potenzialità di eccellenza ma che di fatto è legato ancora ad una ristretta cerchia di adepti e quello delle persone comuni - la stragrande maggioranza di noi - ancora tanto distanti da queste tematiche, possa e debba continuare ad essere uno dei compiti fondamentali dell’ambientalismo degli anni a venire.

Michele Salvadori

domenica 10 ottobre 2010

Le buone "eco-balle"

In una società complessa i problemi non possono, ovviamente, avere che soluzioni complesse e articolate.

In tema di rifiuti i dati ufficialmente sanciti dai nostri organi di certificazione stabiliscono che nella sola Toscana nel 2009 ogni cittadino ha prodotto 663 Kg. di rifiuti (una delle medie più alte tra le regioni italiane): tale dato si riferisce peraltro solo ai cosiddetti rifiuti “urbani” (ne sono ad esempio esclusi gli speciali ed i pericolosi) ovvero appena un quarto del totale dei rifiuti prodotto. Attualmente solo 55 dei 287 Comuni della regione hanno raggiunto o superato la quota del 45% di raccolta differenziata (obiettivo 2008) e di questi solo 9 avrebbero già raggiunto il nuovo obiettivo del 55% previsto entro la fine del 2010.
La discarica di Case Passerini è ormai praticamente chiusa da un anno ed i rifiuti urbani di Firenze vengono trasportati in parte in Provincia di Pisa, a Peccioli, ed in parte in Provincia di Arezzo, a Terranuova Bracciolini.
In un simile contesto è chiaro che ogni piccolo progetto, ogni piccola idea, ogni personale, singola buona pratica volta a fornire un contributo all’attenuazione del problema “gestione e produzione dei rifiuti” rappresenta un passo importante.

E’ partendo da questo presupposto che ho deciso di parlare dell’esperienza di un socio degli Amici della Terra di Firenze, Aldo De Luca, che da circa due anni e mezzo sta gestendo un piccolo orto applicandovi delle soluzioni a mio avviso meritevoli di maggiore attenzione proprio perché del tutto sostenibili.
Aldo sta recuperando e riutilizzando le vecchie balle di juta usate dalle torrefazioni per il trasporto del caffè e destinandole, come vedremo, a più usi.

Innanzitutto egli ha creato all’interno del suo orto uno spazio adibito alla produzione del compost .

Qui le vecchie balle, abbinate al riutilizzo delle ceste normalmente usate per la raccolta delle olive, costituiscono un originale sistema per produrre l’humus che poi viene interamente recuperato sul posto per la produzione degli ortaggi.

Il compostaggio nella sua fase iniziale ...

... ed in quella finale a risultato raggiunto.
Le ceste per la raccolta delle olive, poggiate su vecchie tavole di legno, e rivestite con la tela dei sacchi del caffè vengono usate per la raccolta di tutti gli scarti organici della cucina, in tal modo interamente recuperati e sottratti alla raccolta tramite cassonetti. Man mano che si riempie una cesta, si avvia la raccolta dell’organico in quella successiva. Ma a questo sistema Aldo ha applicato la cosiddetta “lombricoltura”. I residui organici depositati nelle cassette iniziano la loro naturale fase di decomposizione nelle prime 6-8 settimane ed a partire proprio dal terzo mese di decomposizione essi sono “attaccati” dai lombrichi della specie “Rosso della California” che oltre a completare la fase di deterioramento dei residui organici contribuiscono a formare un terriccio particolarmente ricco di sostanze nutritive per le piante.

Tutto il procedimento avviene in maniera naturale e senza interventi esterni da parte dell’uomo. Una volta immessi, circa due anni fa, i primi lombrichi in una delle ceste per l’organico, essi hanno iniziato a riprodursi da soli così come da soli e spontaneamente questi vermetti - capaci di mangiare ogni giorno il doppio del proprio peso corporeo e vivere addirittura fino a 16 anni - migrano da una cassetta all’altra.

Ma il riutilizzo delle balle di juta non si limita solo a questo. Come illustrano le immagini qui riportate, esse sono utilizzate anche come pacciamanti. Aldo ha iniziato ad utilizzarle per coprire i camminamenti del suo orto facilitandosi gli attraversamenti. Quando si è accorto che la tela delle sacche impediva la crescita delle erbacce e delle piante infestanti ha deciso di applicare le balle anche come pacciamante ricavandone ulteriori vantaggi.
La coltivazione degli ortaggi ne ha tratto beneficio: grazie all’utilizzo della tela non è più necessario ricorrere a diserbanti chimici, inoltre le balle forniscono un ottimo sistema di drenaggio per l’acqua piovana che viene meglio assorbita. In questo modo si è praticamente dimezzato il fabbisogno di acqua per le piante. L’uso della tela di iuta è perfettamente sostenibile in quanto non inquina essendo un prodotto naturale ed in più consente quella traspirazione che invece il normale telo pacciamante in polietilene impedisce. Inoltre le balle preservano il terreno evitandone l’eccessivo indurimento con la conseguenza che al cambio di stagione non è più necessario ararlo ma sarà sufficiente zappettare un po’ la terra in superficie prime di procedere alle nuove semine.

Sopra le balle non cresce praticamente nulla e quel poco che vi spunta lo si elimina facilmente con il gesto di una mano. Quello che cresce sotto la tela secca in breve tempo per mancanza di luce e viene riassorbito direttamente dal terreno.

Ricapitolando con l’uso di queste vere “eco balle”, così soprannominate da Aldo - che sul tema ha realizzato un sito internet a questo indirizzo davvero interessante - si recupera materiale organico, si riutilizza qualcosa altrimenti destinato alla discarica, si riduce il lavoro dell’uomo, si evita l’uso di diserbanti chimici, si risparmia sull’utilizzo dell’acqua e grazie al compostaggio si ottiene anche un ottimo ammendante prodotto sul posto e pronto per l’uso.

Inoltre l’orto di Aldo è una specie di salotto dove si può tranquillamente camminare senza dover ricorrere all’uso di stivali in gomma.

Le balle, essendo totalmente fabbricate in fibra naturale, hanno un ciclo di durata limitata nel tempo - circa un anno - al termine del quale debbono essere sostituite con delle nuove.
I filamenti che compongono le balle ancora nuove, una volta separati, possono essere impiegati e dunque riutilizzati anche come singoli legacci per sostenere le piante. Pensate che da una sola balla si possono ricavare 600 cordicelle da 70 cm e 300 da un metro!


Aldo in proposito ci fa però una raccomandazione importante: di recente è iniziata la produzione di sacche in misto nylon e iuta probabilmente più resistenti ed economiche rispetto alle tradizionali. Quest’ultime sono naturalmente da evitare in quanto non possiedono i requisiti ecologici delle originali interamente in tessuto naturale!

Nell’orto-salotto di Aldo non si butta via niente e così sono recuperate anche le vecchie compostiere un tempo distribuite dal Comune di Firenze che in parte sono adibite a contenitori per attrezzi e sementi ed in parte ancora utilizzate per la loro funzione originaria e tra l’altro come luogo di destinazione finale delle tele di juta ormai in stato di decomposizione.
Ma il risultato migliore di tutti è un altro: Aldo, al termine della mia visita mi ha regalato un sacchetto di pomodori che naturalmente ho subito “consumato” la sera a cena con mia moglie. Siamo ad ottobre inoltrato ed ormai la stagione dei pomodori si va esaurendo; eppure il colore, il sapore, la qualità del prodotto, ve lo assicuro, era decisamente, superbamente superiore a quanto siamo purtroppo abituati e costretti ad acquistare nei grandi centri commerciali.


Chi volesse avere maggiori informazioni può rivolgersi direttamente ad Aldo al seguente indirizzo mail: aldo@vereecoballe.it

Michele Salvadori












giovedì 9 settembre 2010

IPad, come cambia la nostra vita

Da ormai un paio di mesi sto utilizzando l’iPad questo nuovo strumento informatico ideato dalla Apple.
Ricordo i commenti dei suoi primi detrattori che s’interrogavano sull’effettiva necessità di creare un “attrezzo” di questo tipo a loro parere pressoché inutile.
A beneficio di quei pochi che ancora non lo conoscessero, l’iPad è una sorta di via di mezzo tra un iPhone (cellulare con un grosso display in grado di svolgere molte funzioni tra cui la principale è quella di garantire una facile accessibilità ad internet) e un piccolo computer portatile. Le sue dimensioni esatte sono 18,9 cm x 24,3 cm, il peso circa 700 gr.
Grazie all’iPad possiamo con estrema facilità coniugare praticamente tutte le funzioni di un normale personal computer e di un cellulare smartphone, a parte telefonare.

Sfruttando il suo ampio display e la sua grande velocità vi si può leggere un quotidiano oppure un romanzo, possiamo scaricare film o file musicali, si può utilizzare come una piccola playstation portatile e naturalmente possiamo navigare in internet, scrivere, inviare mail, predisporre documenti di lavoro disponendo di programmi equivalenti (e decisamente migliori!) al comune pacchetto Office. E tutto questo, grazie alla opzione 3G che consente la connessione ad internet ovunque, lo possiamo fare in qualsiasi ora della giornata ed in qualunque luogo ci troviamo: in treno, in auto, in barca, a casa, su un’isoletta in mezzo al mare, sulla vetta di una montagna!
In pochi mesi dalla sua uscita, si calcola che nel mondo ne siano già stati venduti oltre 3,5 milioni di pezzi!

Naturalmente anche l’iPad ha dei limiti e dei difetti (le dimensioni ed il suo peso giudicati eccessivi da qualcuno, il prezzo – si parte da 499,00 euro per il modello base - ancora elevato, un sistema audio limitato, l’impossibilità di utilizzarlo anche come cellulare, lo rendono ancora un oggetto imperfetto) che i principali concorrenti della Apple si stanno affrettando a risolvere proponendo modelli alternativi forse più completi anche se esteticamente meno belli e che comunque arrivano “dopo” l’invenzione di Steve Jobs.
Non ho dubbi che nel giro di breve tempo il mercato offrirà valide alternative a questo strumento. Resta il fatto che questa “invenzione” al pari di quella del computer e del telefono cellulare è destinata a cambiare le nostre abitudini di vita e in gran parte in meglio.

Sono un lettore assiduo e onnivoro e da oltre vent’anni la mia prima azione alla mattina è quella di dirigermi all’edicola per acquistare almeno un quotidiano. Estate, inverno, in città, al mare, nel periodo di lavoro oppure in ferie corro ad acquistare il giornale spesso ancor prima di aver fatto colazione. Lo considero uno dei più bei piaceri della giornata bermi una bevanda calda sfogliando le pagine di un quotidiano.
Si dice che in Italia si legga poco, eppure per me quest’azione è talmente gradevole che in quei pochi giorni all’anno (16 agosto, 26 dicembre, 2 gennaio, lunedì di Pasquetta) in cui i quotidiani non escono, in quelle mattine mi sento un po’ spaesato, sento mancarmi qualcosa …

Da quando ho il mio iPad ho smesso di andare in edicola.
Continuo naturalmente a leggere il quotidiano tutti i giorni, però lo faccio scaricandolo via internet su questa piccola straordinaria tavoletta che tra l’altro mi consente di visionare tutte le varie edizioni locali del giornale a prescindere da dove mi trovi.
L’esperienza della lettura con l’iPad, ed in particolare quella di un quotidiano, è splendida ma difficile da descrivere. Semplicemente va provata.
Avevo già sperimentato la lettura dei giornali dal mio computer di casa. Ma quella su iPad è davvero un’altra cosa. La possibilità di sfogliare le pagine semplicemente sfiorando lo schermo, quella di ingrandire l’articolo prescelto con il solo tocco di un dito, la facoltà di visionare filmati correlati alla notizia che stiamo leggendo, accrescono ulteriormente, se possibile, il piacere della lettura.
A tutto questo vanno aggiunte altre considerazioni che oltretutto vanno in direzione di un maggiore rispetto per l’ambiente.

Uno dei difetti dell’ assidua lettura dei giornali, come ben sanno coloro che come me li acquistano con regolarità, è dato dal fatto che dopo 24 ore il giornale è vecchio, va buttato via, rappresenta cioè un rifiuto che di solito va a formare una piccola pesante catasta che periodicamente dobbiamo poi smaltire in qualche modo.
Avete mai provato a pesare un quotidiano? Il peso medio di un giornale si aggira tra i 200 ed i 250 gr., senza considerare il peso degli inserti e dei vari allegati, vero e proprio orpello obbligatorio da acquistare in edicola, di cui spesso faremmo volentieri a meno.
Facendo una media tra giornale e allegato, acquistando anche un solo quotidiano, un lettore comune produce qualcosa come 300-350 gr di carta e cartone al giorno.
In capo ad un anno sono circa 120 kg. di carta che accumuliamo!

Da circa due mesi, sparito l’accumulo dei giornali, mi sono accorto di avere praticamente ridotto di due terzi la produzione domestica di carta!
Visti i problemi di sovrapproduzione di rifiuti che caratterizzano la nostra epoca, credo che questo possa rappresentare senza dubbio un dato positivo.

A questo va aggiunto poi l’aspetto economico.
Il prezzo di un quotidiano in edicola varia da 1,00 euro ad 1,20 euro senza i famosi (famigerati in alcuni casi!) allegati che in particolari giorni della settimana ci costringono a sborsare 1,50 euro.
In capo ad una settimana in media spendiamo circa 8-9 euro sempre limitandoci all’acquisto di un solo giornale. In un anno spendiamo in media circa 400,00-450,00 euro a quotidiano.

L’acquisto di una copia di un quotidiano su iPad (ma anche da un comune computer via internet) si aggira sui 0,70 euro a copia che diminuiscono, a seconda della tipologia di abbonamento che scegliamo, ed arrivano anche a circa 0,50 euro per copia se decidiamo di sottoscrivere un abbonamento annuale. Questo significa che in un anno, spendendo 180,00 euro anziché 450,00, potrò ottenere un risparmio di ben 270,00 euro sempre fermandomi all’acquisto di un solo quotidiano.

A questo va aggiunto poi anche il risparmio in termini di elettricità. La lettura su iPad non necessità di luce esterna e pertanto è possibile leggere in una stanza al buio sfruttando l’illuminazione dello schermo della mia tavoletta il cui consumo equivale a quello di un grosso cellulare (lo si ricarica allo stesso modo e la batteria ha una durata - testata da me - di circa 9 ore).

Tralascio volutamente la riduzione in termini di emissioni di CO2 conseguente alla scelta di questa nuova tecnologia, non avendo a disposizione dati certi in proposito e perché per onestà, alla quantità di anidride carbonica equivalente sottratta all’ambiente attraverso l’utilizzo dell’ iPad, dovremmo tuttavia aggiungere le emissioni prodotte nel medesimo ambiente nel suo percorso di fabbricazione.

L’altra grande opportunità offerta da questo strumento è quella legata alla possibilità di acquistare, scaricare e leggervi direttamente dei libri che per questa ragione sono oggi chiamati “libri elettronici” o, in inglese, “e-book”.
In Italia sono scaricabili al momento, sia pure a titolo totalmente gratuito, solo pochi testi  e tra questi quelli che appartengono al Progetto Gutenberg sui quali sono scaduti i diritti d’autore; ma dal prossimo mese di ottobre anche da noi saranno messi in vendita i primi testi contemporanei ed in lingua italiana.

L’esperienza di lettura di un lungo testo su iPad, pur non offrendo le stesse opportunità del quotidiano, è comunque estremamente pratica e agevole. Possiamo scegliere e modificare in qualsiasi momento il font e le dimensioni del carattere del testo che stiamo leggendo, addirittura modificare il colore dello sfondo; interrompere la lettura e riprenderla quando vogliamo dallo stesso punto, grazie ad una sorta di segnalibro elettronico.
L’iPad, così come gli altri similari strumenti di lettura elettronica – oggi si definiscono con i termini inglesi di “e-reader” oppure “tablet” – consente di poter scaricare e conservare centinaia di testi consultabili in qualsiasi momento ed ovunque ci troviamo.
Questi “tablet” sono destinati a cambiare in maniera radicale il futuro (e neppure tanto futuro!) mercato dell’editoria.
Negli Stati Uniti, paese da sempre un passo avanti rispetto agli altri in certi settori, questo sta già avvenendo.
Quanto affermato in precedenza per i quotidiani, ovviamente vale anche per i libri sia sul piano della produzione della carta che su quello economico.

Gli esperti del settore sostengono che, a prescindere dalle offerte promozionali di lancio nell’immediato, certo vantaggiose per gli acquirenti, una volta a regime il prezzo di un e-book si aggirerà attorno a circa la metà del costo del libro in formato cartaceo.

Tutto lascia supporre dunque che abbiamo trovato uno strumento che può contribuire (lui e i suoi simili) a migliorare la qualità della nostra vita, riducendo al contempo il nostro impatto sull’ambiente.
Vi saranno - è indubbio - anche delle conseguenze sui nostri stili di vita e sul mercato economico.
Da circa due mesi non mi reco in edicola e non saluto più il mio giornalaio.

La consuetudine di incontrarlo ogni mattina di buon ora con la scusa dell’acquisto dei giornali e di fermarmi qualche minuto con lui a commentare i fatti del giorno, la situazione meteorologica, le ultime “imprese” del Sindaco Renzi, le vittorie e gli scivoloni della Fiorentina, non avviene più, ed un po’ mi spiace.

Chi sostiene che la tecnologia informatica sta in realtà allontanando le persone probabilmente ha ragione.

Questa nuova tecnologia si presta particolarmente alla fruizione di quanto è distribuito ed ha una durata di consumo estremamente limitata nel tempo. Dunque a mio parere risulterà particolarmente adatta non solo per i quotidiani ma anche per settimanali e riviste mensili “usa e getta”.

Così come l’avvento dei cellulari ha causato la scomparsa progressiva delle cabine telefoniche, così come l’avvento del dvd e di internet ha progressivamente portato alla scomparsa dei videonoleggi (negli USA la catena Blockbuster ha già chiuso ed anche in Italia essa sta lentamente scomparendo) temo che l’avvento degli e-book porterà nel giro di qualche anno ad una nuova piccola rivoluzione.
Certo nei panni del mio edicolante non sarei troppo felice di questa novità …

Questo probabilmente causerà nel giro di un decennio (forse prima?) un drastico ridimensionamento anche dell’acquisto dei libri su carta e dunque anche nelle vesti di un libraio non sarei molto entusiasta.
Il mio iPad con la sua custodia
Sempre negli Stati Uniti una delle catene librarie più importanti, la Barnes & Noble, sta chiudendo i battenti sembra proprio a causa dell’avvento degli e-book.

Diverso invece il settore dell’editoria che certo dovrà adeguarsi, e in fretta, ma tuttavia avrà, credo, la possibilità di aprirsi comunque nuove strade commerciali.

Riguardo all’acquisto dei libri su carta credo che finiremo con probabilità per scegliere solo i testi di un certo valore artistico e culturale, destinando invece alla forma digitale i libri di una stagione, il romanzo dell’estate, il giallo del momento di cui tutti parlano ma che a distanza di qualche tempo nessuno legge più (vedasi i Dan Brown di qualche anno fa, gli Stieg Larsson di adesso, e altri analoghi).
Una copia cartacea della Divina Commedia, magari con le illustrazioni di Gustav Dorè, penso sarà ancora presente in qualcuna delle nostre case anche se probabilmente pochissimi avranno la curiosità di andarla ad aprire di tanto in tanto …

Resteranno comunque - sempre tra qualche anno - i nostalgici che magari si sveneranno per acquistare una vecchia copia cartacea della prima edizione di “Harry Potter e la pietra filosofale” oggi giudicata buona giusto come carta da macero …

Alla fine forse riusciremo a salvare la vita di qualche albero e a diminuire di qualche tonnellata la nostra produzione di rifiuti. Come risultato, in fondo, mica male!


Michele Salvadori





martedì 13 luglio 2010

Buon Compleanno Che Pianeta faremo!

Oggi Che Pianeta faremo compie il suo primo anno di vita.
Un augurio orgoglioso da parte del suo "creatore" ed un sincero ringraziamento a quanti hanno avuto la bontà di leggerci.

Michele Salvadori

mercoledì 5 maggio 2010

"State of the World 2010"


Il prestigioso Centro Studi Worldwatch Institute, dall’ormai lontano 1974, si è dato la missione di fornire ai cosiddetti “decisori” suggerimenti, idee, stimoli per favorire la creazione di una società ecologicamente sostenibile cercando da sempre di conciliare le azioni promosse dai governi con quelle delle imprese del settore privato e, non ultime, le azioni dei singoli cittadini.
Fra le sue pubblicazioni quella che ormai ha raggiunto una fama internazionale è senza dubbio lo “State of the World”, un rapporto con cadenza annuale nel quale questo centro di ricerche con sede a Washington si pone l’obiettivo di analizzare lo stato del nostro pianeta, per l’appunto, e al contempo fornire indicazioni utili ad affrontare le principali problematiche rilevate.
A partire dal 1988 State of the World è realizzato anche in edizione italiana, e tra l’altro, presso la Biblioteca Ambientale degli Amici della Terra è possibile reperirvi con la formula del prestito o della consultazione tutte le 23 edizioni finora pubblicate.
L’edizione 2010 che reca come sottotitolo “trasformare la cultura del consumo” (Edizioni Ambiente, €. 24,00 pp. 380) è interamente dedicata a cosa sta accadendo nelle nostre società per avviare quella trasformazione indispensabile della nostra cultura e passare dall’attuale dimensione consumistica a quella della sostenibilità sia sul piano ambientale che su quello della giustizia sociale.
Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia, nella sua ormai consueta introduzione all’annuale edizione del rapporto, ribadisce alcuni punti fermi della riflessione sulla sostenibilità da parte degli ambientalisti.
E’ possibile – egli si chiede – consentire uno stile di vita, quale quello medio degli abitanti dei paesi ricchi, all’intera popolazione mondiale attuale di 6,8 miliardi e a quella prevista per il 2050, di poco più di 9 miliardi? La risposta è, evidentemente, no, non è possibile.”
A dimostrazione della tesi, G. Bologna porta un esempio per tutti, quello sull’approvvigionamento energetico: un cittadino degli Stati Uniti consuma oggi energia come 2 europei, 6 cinesi, 22 indiani e addirittura 70 abitanti del Kenya. Senza considerare che nei prossimi trent’anni dovranno avere accesso all’energia altri 2,5 miliardi di persone.
Risulta evidente che le nostre società non possono continuare su questa strada.
Come ricorda Christopher Flavin, presidente del Worldwatch Institute: “Negli ultimi cinquant’anni il consumismo si è imposto quale cultura dominante… è diventato uno dei motori dell’inarrestabile crescita della domanda di risorse e della produzione di rifiuti, marchio distintivo della nostra epoca… ed ha contribuito a incentivare le altre forze che hanno permesso alla nostra civiltà di crescere oltre il limite di sopportazione dei rispettivi contesti ecologici.”

Oggi gli scienziati ci ricordano come le attività umane stiano influenzando l’ambiente in modi che vanno ben oltre la semplice immissione in atmosfera di gas serra; che non è più possibile comprendere tali modifiche con la semplice relazione causa-effetto che tanto domina la nostra cultura, rendendo di fatto assai difficoltosa l’interpretazione ed ancor più il predire le reali conseguenze innescate.
Non a caso il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen ha definito la nostra epoca geologica “Antropocene” individuando con questo termine la forte caratterizzazione di questa era da parte della specie umana.
Un altro dato riportato da questo rapporto e a mio parere significativo è quello relativo ai cosiddetti flussi di materia. L’estrazione di risorse a livello globale (biomassa, minerali, metalli e combustibili fossili) è cresciuta dai 40 miliardi di tonnellate nel 1980 ai 60 miliardi nel 2008 e le previsioni parlano di toccare gli 80 miliardi di tonnellate nel 2020. L’attuale economia mondiale utilizza qualcosa di equivalente al peso di 41.000 edifici come l’Empire State Building all’anno (112 al giorno!).
Il metabolismo delle società umane, sta divenendo, tra l’altro, un settore di ricerca sempre più significativo e alla base delle discipline che si occupano di sostenibilità.
A tal proposito, e lo dico con un certo orgoglio, lo stesso Gianfranco Bologna riconosce un grande merito alla ricerca avviata proprio dagli Amici della Terra negli anni ’80 sul concetto di “Spazio Ambientale” ovvero di quel “quantitativo di energia, di risorse non rinnovabili, di territorio, di acqua, di legname e di capacità di assorbire inquinamento che può essere utilizzato pro capite, senza determinare danni ambientali e senza mettere a rischio le generazioni future”.
L’insostenibilità degli attuali modelli di sviluppo è ulteriormente acclarata da un altro indicatore di cui abbiamo già parlato su questo blog: l’Impronta Ecologica. Essa mette in relazione l’impatto dell’umanità con la quantità di terreno produttivo e le aree marine disponibili per fornire importanti servizi all’ecosistema ed evidenzia che, attualmente, l’umanità utilizza le risorse ed i servizi di 1,3 Terre. Stiamo cioè utilizzando circa un terzo in più della capacità disponibile della Terra.
Cito brevemente alcuni esempi eclatanti dell’eccesso nei consumi che contraddistingue il nostro modo di vivere.
L’industria dell’acqua in bottiglia tra il 2000 ed il 2008 ha raddoppiato il proprio fatturato raggiungendo i 60 miliardi di dollari e oltre 240 miliardi di litri d’acqua venduti. L’acqua in bottiglia costa, rispetto a quella dell’acquedotto, dalle 240 alle 10.000 volte di più ma questo sembra essere un dato irrilevante per i consumatori.
L’industria del Fast-food nei soli USA vale 120 miliardi di dollari con oltre 200.000 punti di ristoro.
Agli inizi del 20° secolo l’hamburger veniva disprezzato e considerato il “cibo dei poveri”. Oggi il solo Mc Donald’s serve 58 milioni di persone al giorno.
Nella sola Cina l’industria dei cosiddetti prodotti “usa e getta” (tovaglioli e piatti di carta, pannolini e salviette per il viso) nel 2008 ha fatturato l’equivalente di 14,6 miliardi di dollari con un incremento dell’11% rispetto all’anno precedente.
Nel solo 2008, globalmente, le statistiche ci dicono che si sono acquistati 68 milioni di veicoli, 85 milioni di frigoriferi, 297 milioni di computer e 1,2 miliardi di telefoni cellulari.
Il Rapporto stigmatizza anche un dato che probabilmente farà discutere gli amici animalisti. Sembra che l’industria degli animali domestici raggiunga un fatturato a livello globale di oltre 42 miliardi di dollari all’anno solo in cibo per animali. Nel 2005 il fatturato pubblicitario per questo settore ha superato negli USA i 300 milioni di dollari. Anche gli animali domestici consumano ingenti risorse ambientali. Ad esempio due pastori tedeschi in un anno consumano più risorse di un abitante del Bangladesh.

All’aumento dei consumi corrisponde una maggiore estrazione dal sottosuolo di combustibili fossili, minerali e metalli, più alberi tagliati e più terreni coltivati. Tra il 1950 e il 2005 la produzione di metalli è sestuplicata, il consumo di petrolio è aumentato di otto volte e quello del gas naturale di quattordici.

Per modificare questa situazione è perciò necessaria una vera e propria rivoluzione culturale i cui elementi, già in atto, in tante società in tutto il mondo, vengono propositivamente esposti in questo volume, da autori di diversa cultura e provenienza.
State of the World 2010 si sofferma ad analizzare ciò che sta accadendo nei vari fronti dell’attività umana per spostare i nostri modelli di sviluppo socio-economico.

Il testo inizia con il suggerire una rivalutazione strategica del ruolo delle organizzazioni religiose. Esse potrebbero essere di primaria importanza nello sviluppo della sostenibilità e nel disincentivare il consumismo. Oggi l’86% della popolazione mondiale afferma di appartenere a una religione organizzata. L’autorità morale rappresentata da queste organizzazioni potrebbe realmente svolgere un ruolo determinante nella diffusione della cultura della sostenibilità.

Altro ruolo giudicato strategico e nel quale mi trovo personalmente coinvolto è quello dell’istruzione. Ogni aspetto dell’istruzione scolastica dovrebbe essere orientato verso la sostenibilità. Abitudini, valori e preferenze si formano in prevalenza nell’infanzia e in generale nel corso della vita l’istruzione può avere grande influenza sulla formazione di un individuo. Nel Rapporto viene espressamente citato a titolo di esempio edificante le esperienze “pionieristiche” di paesi come Italia e Scozia nel campo delle mense scolastiche dove molto si sta facendo sia nell’ambito della qualità dell’alimentazione (promozione di cibi biologici) che in quello delle forniture (abbandono dell’usa e getta a favore di utensili riutilizzabili) che infine delle buone pratiche (promozione della raccolta differenziata).
L’istruzione potrà dunque costituire uno strumento cruciale per far fronte a tutti i problemi pertinenti lo sviluppo sostenibile.

Ma egualmente cruciale potrà essere il ruolo dell’industria e del mondo del lavoro in generale. In questa sezione il testo si sofferma in particolare sulla migliore distribuzione dell’orario lavorativo secondo il termine “lavorare meno, lavorare tutti” ma soprattutto “lavorare meno per avere un maggior numero di ore libere nella giornata da poter dedicare alla famiglia e allo svago”. L’analisi fatta in questo capitolo tende a dimostrare come in realtà l’ossessione per il maggior guadagno economico costringa a sacrificare all’attività lavorativa un maggior numero di ore della giornata senza di fatto trasformarsi in concreti benefici in termini di qualità della vita. Questa è del resto la tesi sostenuta anche dai cosiddetti filosofi della “decrescita felice” altro tema già in precedenza affrontato su queste pagine.

Ed analogamente cruciale potrà e dovrà essere il ruolo delle Istituzioni nel farsi promotrici di questo cambiamento in un’ottica di eco compatibilità. In particolare autorità, governi e amministrazioni possono influire in modo determinante attraverso lo strumento chiamato “choice editing”, un meccanismo già adottato in molte comunità che consente di pilotare le scelte dei cittadini attraverso leggi, sanzioni fiscali, incentivi e altre forme di controllo allo scopo di rendere le opzioni sostenibili non più un’alternativa, ma la soluzione più ovvia e scontata. Viene citata a tal riguardo una moltitudine di esempi: dalla messa al bando dei sacchetti di plastica (in Irlanda è stata introdotta un’imposta specifica), al graduale ritiro dal commercio delle lampadine a incandescenza, alla rimozione dagli scaffali dei supermercati ad altezza occhi di quei prodotti alimentari ricchi di grassi per sfavorirne l’acquisto, al sistema di certificazione energetica degli edifici.
Un esempio che mi ha particolarmente colpito è quello realizzato a Perth, in Australia, e denominato TravelSmart. Il sistema si basa sull’interazione dei singoli cittadini attraverso il contatto diretto per lettera, mediante intervista telefonica oppure colloquio a domicilio nel corso dei quali si fornisce all’interessato il maggior numero d’informazioni utili possibili al fine di consentire loro una valida alternativa all’uso dell’auto privata per gli spostamenti prospettando tra l’altro quali vantaggi si potranno ottenere non solo in termini economici e per la comunità ma anche per la propria salute fisica nel rinunciare all’auto. L’esperimento iniziale ha coinvolto circa 200.000 famiglie ed ha tra l’altro consentito all’amministrazione di Perth di poter avviare la costruzione di una nuova linea ferroviaria con oltre il 90% dei consensi a favore del progetto da parte della cittadinanza.

State of the World dedica un capitolo anche al ruolo dei mass media.
I mezzi di comunicazione di massa, poiché ritraggono lo stile di vita degli individui, trasmettono norme sociali, modellano i comportamenti e agiscono dunque come veicolo di marketing diffondendo notizie e informazioni, confermandosi uno strumento estremamente efficace per plasmare le culture. E’ possibile usare questi mezzi sia per diffondere un modello culturale consumistico sia per contrastarlo, promuovendo sostenibilità. Benché oggi la stragrande maggioranza dei media alimenti il primo aspetto, a livello globale, si sta intervenendo per modificare questa tendenza. Visto il ruolo preponderante del marketing nella stimolazione dei consumi sarà strategico usarlo per promuovere comportamenti sostenibili. Gli esempi certo non mancano, basti pensare ad esempio alle campagne per scoraggiare il tabagismo, piuttosto che a quelle per praticare sesso sicuro, indossare le cinture di sicurezza, abbassare i consumi di alcool.

Oltre ai mass media anche le arti possono fornire un prezioso contributo: sono riportati esempi nel campo delle arti figurative, della musica e della cinematografia. In proposito la bella copertina dell’edizione americana di State of the World 2010 riporta “Gyre” l’opera di Chris Jordan ricreazione della celebre stampa su legno dell’artista giapponese K. Hokusai, “La Grande onda di Kanagawa", realizzata però grazie all’utilizzo di ben 2,4 milioni di pezzi di plastica.
Particolarmente interessanti ho trovato l’analisi ed i distinguo fatti su film narrativo e documentario. Il cinema in generale viene giustamente riconosciuto come potente mezzo in grado di contribuire alla comprensione che gli individui hanno del mondo e del loro ruolo in esso. Il documentario tuttavia in genere è in grado di coinvolgere solo un pubblico già sensibile ad una particolare tematica e dunque manifesta un potenziale limitato nell’ottica della trasformazione culturale che s’intende promuovere. Nel film narrativo è invece più facile coinvolgere emotivamente un pubblico anche estraneo a certe tematiche proprio perché l’azione virtuosa non viene fatta calare dall’alto ma viene in qualche modo “normalizzata” attraverso l’azione dei personaggi sullo schermo. E’ in fondo, quest’ultima, la logica che abbiamo provato a seguire nella realizzazione del nostro docu-film “Non buttarti via” sulla tematica assai delicata della riduzione della produzione di rifiuti domestici.

Il libro contiene naturalmente un’infinità di altri spunti che per tempo e spazio sono costretto a tralasciare ma che mi auguro possano essere vagliati con attenzione da chi avrà la bontà di cimentarsi nella lettura di quello che giudico un utilissimo strumento di stimolo a riflettere e agire, prima che sia troppo tardi.

Michele Salvadori

lunedì 5 aprile 2010

"La società post-crescita" di Giampaolo Fabris


Ormai è un dato di fatto incontrovertibile: la crescita economica non produce più benessere né migliora la qualità del nostro vivere. E’ l’assunto dal quale prende spunto il bel libro dal titolo “La società post-crescita” (Edizioni Egea, pp.420, €. 26,50), di Giampaolo Fabris, docente di Sociologia dei consumi alla IULM. In passato la crescita dell’economia è sempre stata considerata quasi un sinonimo e/o un presupposto del benessere che si identificava con la celebre American way of life ovvero quel modello esemplare di vita e di consumi che gli USA, per circa un secolo, hanno proposto al mondo.
La crisi economica ha drammaticamente messo in luce quanto la strada del consumismo portato all’eccesso, come unica via per la risoluzione dei nostri problemi, sia sempre meno praticabile.
Non è pensabile continuare a consumare sempre più, non solo per scelta, ma addirittura per una sorta di doverosità morale a sostegno dell’impalcatura economica, così come talora invece sentiamo suggerirci da alcuni.
Ha senso cambiare cellulare sempre più spesso (le statistiche parlano per l’Italia di una media di 18 mesi di vita per il nostro cellulare), ha senso dilatare il nostro guardaroba con nuovi capi quando i nostri armadi a casa non ne contengono più, ha ancora senso avere non una ma 2 auto di proprietà parcheggiate sotto casa e che le statistiche ci dicono in media usiamo 2 ore al giorno?
Luoghi emblematici di questo modello considero l’edicola sotto casa - dove ci vengono propinate settimanalmente collezioni di ogni genere di oggetti-paccottiglia (dai modellini di auto agli orologi) privi di qualunque valore – e il nostro ufficio postale ormai trasformato in gran bazar dove si acquista dalla scheda sim, ai giocattoli, ai libri, (e dove tra l’altro riuscire a pagare un bollettino è divenuta un’esperienza estenuante!).
Ormai le imprese inseguono il consumatore in tutti gli aspetti della sua vita fino a creare in lui talvolta stadi di vera esasperazione. Non so a voi, ma nella mia esperienza personale, ad esempio, non passa giorno in cui a casa o in ufficio non riceva telefonate e/o fax - non parliamo poi delle decine e decine di mail- con proposte di nuovi piani tariffari, cambi di gestore telefonico, offerte di acquisto di prodotti alimentari! Il classico spot pubblicitario va sempre più perdendo efficacia ed allora si cercano nuove strade sempre più invasive.
Il mondo occidentale sembra affetto da una sorta di bulimia da consumo che contraddistingue tutti gli aspetti della nostra vita. Un recente studio dell’Università della Carolina ha rilevato come per la prima volta nel mondo il numero di obesi (circa un miliardo) abbia superato il numero delle persone denutrite (circa 800 milioni).
Uno studio dell’Istituto Mario Negri mostra che in Italia ogni anno vengono gettate via perché scadute circa 10 confezioni di medicinali a famiglia (equivalenti a 800 milioni di Euro), ed i cui due terzi terminano in discarica in quanto non sono differenziate nella raccolta dei rifiuti. Ed a proposito dei rifiuti, il packaging dei nostri prodotti ci sta letteralmente sommergendo.
Le nostre città corrono il rischio di diventare sempre più simili alla Leonia che Italo Calvino, in uno dei suoi celebri racconti, immagina travolta dagli stessi rifiuti che produce (e i recenti casi di Napoli e Palermo in fondo ne sono un esempio emblematico).
Guido Viale osserva come “il costo di una confezione di pomodori in scatola è di pochi centesimi ma il costo del suo smaltimento come rifiuto è tre volte tanto. Se si considera poi il degrado ambientale che questo rifiuto provoca, il costo complessivo di questo imballaggio sarebbe anche dieci volte maggiore”. La spesa alimentare va costantemente riducendosi nei bilanci delle famiglie: ancora agli inizi degli anni Settanta essa assorbiva circa il 36% della spesa mentre nel 2009 ammonta al solo 15,6%. La spesa per la comunicazione sta superando quella alimentare. Il solo cellulare assorbe il 6% della spesa familiare per non parlare di quanto incida sui nostri budget quella per l’auto. Oggi un litro di benzina costa quanto un kg. di pasta che a sua volta costa quanto un biglietto per il tram!

Per fortuna sembra che qualcosa stia mutando nel comportamento individuale. Una serie di indagini condotte sul consumo, e illustrate con dovizia di dati e rigore scientifico riportati in questo testo, tendono a dimostrare come stiano emergendo modelli di consumo diversi da quelli sinora egemoni e che vanno in direzione di un consumismo meno esasperato ma non verso la cosiddetta decrescita auspicata da taluni (Serge Latouche e Maurizio Pallante, solo per citare i primi che mi vengono in mente e non tralasciando Wolfgang Sachs le cui posizioni sono tuttavia meno ortodosse rispetto ai primi due).
Anzi, Fabris, nei confronti della filosofia della decrescita, è piuttosto critico definendola un’utopia anacronistica. Oggi il consumatore medio inizia a manifestare segni di disagio e sazietà nei confronti di un’iperofferta inarrestabile e cerca di reagire a questo stato di cose con un atteggiamento meno passivo rispetto al passato, più attento e consapevole e tuttavia lontano dal “fermate il mondo voglio scendere” proposto dai profeti della decrescita. A tale riguardo Fabris pone una questione molto semplice: “Come è possibile – egli si chiede - imporre di tirare il freno a mano a chi si affaccia appena adesso ad un livello di benessere diffuso? Ed ancora come possiamo lottare contro la povertà e la fame che attanaglia ancora più di un miliardo di persone nel mondo, riducendo drasticamente i consumi?”

Tra capitalismo e decrescita può svilupparsi, e ciò sta già accadendo in talune fasce ancora minoritarie della popolazione italiana, una terza via, quella appunto che Fabris definisce della post-crescita e che coniuga qualcosa di entrambe le due filosofie.
Sembra dunque che stia emergendo un nuovo trend. Tra i primi cambiamenti riscontrati da Fabris emerge una progressiva acquisizione di sensibilità ambientale. La presa di consapevolezza della progressiva distruzione delle risorse naturali, dell’innalzamento della temperatura del pianeta, degli effetti del consumo eccessivo delle risorse in precedenza trascurati, stanno finendo per convergere nella presa di coscienza da parte di alcuni di noi che l’attuale modello di sviluppo basato sul presupposto di una crescita continua e illimitata dei consumi comincia ormai a entrare in crisi.
Sta nascendo una nuova figura di consumatore riflessivo – sostiene ancora Fabris – in cerca di un equilibrio tra l’avidità di ieri e l’anoressia predicata dai sostenitori della decrescita. A tale proposito egli prende ad esempio la nascita in questi ultimi anni di fenomeni collettivi quali i GAC (Gruppi di Acquisto Collettivi) ed i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) che si ispirano ai principi del localismo e del consumo consapevole.
In fondo è proprio attraverso le scelte alimentari, del vestiario, dell’abitazione e del suo arredo, dell’impiego del tempo libero e delle letture che si definisce il nostro stile di vita. E questo in qualche modo supera, per importanza, perfino la scelta del voto politico. Oggi quando acquistiamo un prodotto esprimiamo una preferenza esattamente come quando andiamo a votare alle elezioni. La differenza sta nel fatto che il consumo appare ora un’arma molto più affilata del voto.
Anche Fabris, almeno in questo in totale sintonia con Serge Latouche, prende le distanze, nella propria analisi, dal PIL come attendibile misuratore della crescita economica e del benessere di un Paese. Esso si rivela, a suo parere, ormai un sistema anacronistico e addirittura “socialmente offensivo”. Del resto già nel lontano 1968 anche Bob Kennedy in un suo celebre discorso aveva affermato come “ad alimentare il PIL sono anche l’inquinamento dell’aria, il costo delle ambulanze che intervengono sulle strade per gli incidenti,… le serrature per barricare le nostre case, i costi della prigione per chi le infrange…”. Il PIL oggi non misura la qualità dei prodotti, la loro compatibilità ambientale, la qualità della vita. Da qui la necessità, ormai sostenuta da molti, di individuare nuovi indicatori per la misurazione dello stato di sviluppo di un Paese.

Ci stiamo avviando dunque ad una nuova fase che appunto Fabris definisce di post-crescita e di post-consumismo. Come protagonisti di questa nuova fase egli indica tre soggetti: il consumatore, lo Stato, il sistema delle imprese. Tra questi, a suo avviso, sarà proprio il consumatore ad avere il maggior peso e la maggiore importanza nel contribuire al cambiamento che ci attende. Il nuovo consumatore dovrà tenere un atteggiamento responsabile nei confronti delle patologie ambientali indotte dal consumo, critico verso modelli improntati allo spreco e consapevole anche del significato politico che le sue scelte di consumo potranno svolgere.
Fabris, tra le sue tante considerazioni, ne fa una che condivido particolarmente. Egli mostra seria preoccupazione e indica come uno dei principali ostacoli alla diffusione di questa sorta di new deal dei consumi, l’integralismo di segmenti di popolazione che si propongono come avanguardie di questo nuovo modello e segnatamente del cosiddetto “ambientalismo del NO” e di una cultura radical chic che hanno come comun denominatore l’avversione assoluta per il capitalismo, l’ostracismo incondizionato contro le grandi aziende multinazionali e l’adesione ad una visione del mondo tra l’ascetico e l’esclusivo impegno militante. Egli definisce queste frange che predicano una sorta di ritorno allo stato di natura preindustriale come “talebane” e stigmatizza certe loro scelte (il bagno da farsi una volta al mese, l’acqua del cesso da tirare una volta al giorno, la vocazione al bricolage e via dicendo) magari singolarmente apprezzabili ma che finiscono con lo scadere nel caricaturale quando si pretende vengano messe a sistema. Insomma pur manifestandone il massimo rispetto, Fabris teme che con il loro scostante massimalismo certi comportamenti possano alla fine scoraggiare un vasto pubblico di persone interclassista ed intergenerazionale che ha l’assoluta necessità di trovare punti di unione che coagulino queste nuove sensibilità emergenti che oggi iniziano a manifestarsi a più livelli e delle quali in questo testo viene proposta un’attenta analisi.
Vediamo di elencarne le principali:
Poco meno dei due terzi della popolazione oggi afferma di preferire, a parità di costo, una marca attiva in difesa dell’ambiente.
Una fetta sempre più consistente della popolazione oggi percepisce lo spreco come un disvalore. A sostegno di questa tesi mi si permetta una breve digressione: di tutte le forme di spreco quella alimentare è certo la più imbarazzante. Si calcola che circa un quinto della spesa alimentare finisca nelle immondizie. Una media di circa 600 euro annue per famiglia: 27 kg. di cibo!
Un altro trend significativo è il progressivo passaggio dal possesso di un oggetto al suo accesso: per dirla con le parole di Jeremy Rifkin si riscontra un passaggio dal regime di proprietà basato sulla titolarietà di un bene al regime di accesso basato sulla garanzia di disponibilità temporanea di quello stesso bene. Potremmo fare moltissimi esempi a tal proposito. Basti pensare alle note pratiche del leasing o del franchising. In generale tutto ciò che si può prendere in affitto, in luogo dell’acquisto, sta registrando una forte accelerazione. La stessa mitologia della seconda casa al mare o in montagna sta ridimensionandosi a vantaggio dei soggiorni in agriturismo o su navi da crociera o in alternativa delle case in multiproprietà. Lo scambio, il baratto, anche delle case, sono divenuti di grande attualità. La stessa gratuità comincia ad assumere connotazioni importanti ed in tal senso l’utilizzo di internet ne rappresenta un veicolo imprescindibile: pensiamo solo alla possibilità di scaricare dalla rete non solo una quantità enorme di dati ed informazioni gratuite, ma addirittura file musicali e film.
Una pratica già accennata è quella del diffondersi dei Gruppi di Acquisto, i GAS, cui si aggiunge il parallelo sviluppo dei cosiddetti Farmer Market ovvero punti vendita di prodotti alimentari gestiti direttamente dai contadini-produttori che riducono drasticamente l’intermediazione commerciale sul prezzo e garantiscono al consumatore la genuinità e la provenienza del prodotto oltre ad abbattere le cosiddette esternalità dei costi.
Si sta riscontrando un sempre maggiore gradimento per il biologico (22% di italiani nel 2008 e 26% nel 2009!). Questo dato risulta particolarmente interessante specie se ne valutiamo gli aspetti economici. Un prodotto biologico costa in media circa un quinto in più rispetto a quello tradizionale, eppure, nonostante la contingenza economica poco favorevole, se ne registra da alcuni anni un costante aumento nelle percentuali d’acquisto. Tra l’altro - altra brevissima digressione - l’Italia, con i suoi 50.000 produttori e gli oltre un milione di ettari di terreno dedicati, risulta essere il primo Paese al mondo nell’agroalimentare biologico.
Ma analoghe controtendenze le possiamo riscontrare sia nel settore dell’abbigliamento che in quello del consumo dei prodotti cosmetici e perfino in quello dei trasporti dove si registra un sensibile ritorno all’uso della bicicletta come mezzo di locomozione, specie nelle grandi città. A tal proposito il costante propagarsi del bike-sharing (la condivisione della bicicletta tra più utenti) ne è un’eccellente dimostrazione.
Un altro fenomeno in costante crescita è quello del cosiddetto “ecoturismo”. E’ ormai un dato di fatto facilmente riscontrabile quello del proliferare negli ultimi anni degli Agriturismi. Tra le principali motivazioni che hanno indotto molti a prediligere questa nuova forma di vacanza ci sono un diverso rapporto con la natura e l’ambiente, la ricerca di una formula meno omologabile alla vacanza tradizionale, ma soprattutto l’attenzione verso l’ambiente, l’idea di una vacanza ecosostenibile e la possibilità per chi vive da sempre in città di ristabilire un contatto e anche un interscambio culturale con il mondo rurale che, ad esempio, ormai i nostri figli ignorano.
Anche nel campo dei rifiuti si registrano dei passi importanti. Farsi carico dello smaltimento dei rifiuti sta divenendo un vero dovere civico. Oggi circa i due terzi dei nostri rifiuti sono da accreditare direttamente o indirettamente alle confezioni dei prodotti che acquistiamo. In questo senso la disponibilità delle persone a farsi carico del problema è decisamente aumentata rispetto ad una decina di anni fa. Le indagini restituiscono addirittura l’orgoglio dei cittadini di certe aree o comuni (in Toscana il Comune di Capannori (LU) ne è un esempio) nel dichiarare il primato della propria zona in questo tipo d’impegno considerato ormai come una battaglia di civiltà che deve vedere la partecipazione di tutti.
Anche il recente favore verso l’utilizzo di prodotti sfusi o alla spina è estremamente indicativo in proposito.
In generale da questa ricerca emerge con chiarezza una crescente consapevolezza da parte del consumatore che tramite le scelte di acquisto si può esprimere anche un implicito messaggio di premio per marche, prodotti, servizi virtuosi. Sia pur lentamente si sta facendo avanti un sentire sempre più critico verso il mondo dell’iperconsumo e sempre più attento non solo a come le merci possono soddisfare i bisogni, ma pure a quali danni sociali e politici esse possono essersi lasciate alle spalle nel loro processo di produzione.
Si sta delineando, insomma, sempre più chiaramente una nuova figura di consumatore autonomo, competente, esigente, selettivo, disincantato, responsabile e riflessivo, quello che con una felice intuizione Maria Romana Zorino ha definito un consum-attore.
Fabbri paragona questa nuova figura del "consum-attore" al personaggio mitologico di Prometeo. Così come Prometeo riuscì ad impossessarsi del fuoco sottraendolo all’Olimpo, oggi il neo consumatore è riuscito ad impossessarsi della conoscenza del prodotto un tempo esclusiva delle aziende produttrici. Tuttavia, e il paragone non è casuale, come Prometeo fu incatenato dagli Dei così ancora oggi sono molti gli ostacoli che le aziende frappongono tra il consumatore e l’acquisizione di una sua totale consapevolezza. Questo a considerazione del fatto che molto lavoro deve ancora essere compiuto e sarebbe davvero illusorio ritenere di essere già fuori dal problema. Ancora una volta però il mito ci viene in soccorso: così come Eracle liberò Prometeo dalle catene, le straordinarie potenzialità del Web nel consentire a chiunque di accedere a dati e informazioni altrimenti di difficile reperibilità vengono considerate da Fabris come una delle armi più potenti a nostra disposizione per contrastare questo deficit di conoscenze che ancora impedisce ai più tra noi di entrare in possesso della verità ed agire di conseguenza.

Piero Bevilacqua, nel suo “Miseria dello sviluppo” scrive: “Cosa c’è da sviluppare o innovare in un habitat salubre o incontaminato, nel paesaggio delle campagne d’Italia o di Francia, nei centri storici delle città d’Europa e del mondo, nelle nostre piazze, nelle tradizioni alimentari mediterranee e di tutti i paesi ereditate da millenni di sapienza popolare? Che cosa c’è da innovare nell’immenso patrimonio artistico che ereditiamo dal passato, nell’eterno diletto di leggere romanzi, passeggiare per i boschi, osservare il mare, contemplare il cielo stellato? Che cosa rimane ancora da sviluppare della gioia di conversare con i propri figli, stare con gli amici, fare l’amore, giocare con i nostri animali? Nulla, in realtà, di ciò per cui vale la pena di vivere ha bisogno di essere sviluppato”.

Sogno il tempo in cui simili parole torneranno ad essere scontate per la maggioranza di noi.

Michele Salvadori